Autore:RUOTOLO ERRICO
N. - M. :Napoli, 1939 - 2008
Tecnica:Olio polimaterico su tela
Misure:100 x 80 cm
Anno:1989
Classificazione: Moderni, Astratti, Oli
Errico Ruotolo è nato a Napoli nel 1939, dove è morto nel 2008. Dopo aver conseguito il diploma di maturità artistica, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Napoli dove frequenta il corso di Pittura diplomandosi nel 1962. Le sue prime opere si collocano nell’ambito di un figurativo con inclinazioni tendenti al surrealista, dove il colore assume un ruolo determinante. Nel 1965 espone a Siviglia, e successivamente, nel 1966 è presente a “Proposta ’66” a Roma e, nel 1967, partecipa, sempre a Roma, alla rassegna “Prospettiva 3”. La sua ricerca con sperimentazioni di tipo informale continua: dapprima muovendosi tra superficie pittorica e legno, poi con l’inserimento di altri materiali come la carta disegnata, la luce artificiale ed il plexiglas, con i quali realizza assemblages. Agli inizi degli anni Settanta nel suo lavoro si inserisce un elemento nuovo: la scrittura. Sono del ’72 opere in cui si ritrovano “cancellazioni” e brevi annotazioni. Nel 1976, con l'”A/Social Group”, è presente alla Biennale di Venezia. Nel 1984 espone a Rennes (Francia) alla “Maison de la Culture”. Nel 1991 è invitato alla rassegna “The Modernity of Lyrism” allestita a Stoccolma. La sua produzione più recente, sempre attenta al rapporto col quotidiano, ripropone immagini che traducono nel gesto-colore-segno le possibili stratificazioni della memoria vissute dall’artista.
Errico Ruotolo è nato a Napoli nel 1939. Conseguito il diploma di maturità artistica nel 1958, frequenta e completa gli studi del corso di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Napoli, nel 1962.
È già nel ‘61, in un articolo di Lea Vergine sulle giovani presenze nel campo artistico a Napoli, che conosciamo Ruotolo. La sua pittura, agli esordi, risente di un figurativo surrealisteggiante dove la ripresa della realtà assume valore emblematico tanto da divenire qualcosa d’oltre: “una possibilità di racconto in termini di colore, una successione di presenze luminose”.
Nascono le opere di natura informale: Note di viaggio, gli Interni e le Cadute; oggetti dipinti e quadri, in cui la gestualità e l’esperienza sui materiali, il legno in questa prima ricerca, rappresenteranno il campo d’azione di questi anni. Tra il 1968-70 questa fase sperimentale prosegue; i lavori sono eseguiti con l’assemblage di altri materiali: la carta disegnata e ritagliata, il vento, la luce artificiale e il plexiglas. Non è più presente la materia pittorica informale, ma permangono le immagini di figure o ritratti, realizzate con il mezzo del traforo, con le ombre e i riflessi della luce.
Questo l’ultimo lavoro realizzato da Errico Ruotolo nell’ambito delle sue ricerche oggettuali e partecipative, da parte del fruitore. Questi “oggetti inutili” (dal punto di vista funzionale) come ama chiamarli lo stesso artista, si inseriscono nel rapporto esistente tra arte e industria, collocandosi in quella pur vasta e forse più culturalmente impegnata zona, del prodotto artigianale.
È del 1971 il Sogno, machine à penser, composta di vari elementi: c’è un grande occhio in plexiglas, sospeso alle pareti da fili che si intrecciano, nel quale rivive la sequenza di fotogrammi di una “carica” di un film western, in cui gli idoli di una volta si innestano in quelli del presente. Ruotolo conduce, in questa sua opera-oggetto, un sottile gioco di ricerca sull’origine dimenticata, che ritorna nei sogno dell’adulto irrimediabilmente contaminata dalla condizione esistenziale dell’ “Uomo-computer”.
Agli inizi degli anni Settanta nell’opera di Ruotolo si inserisce un altro elemento: la scrittura. Infatti, in questo periodo, le opere sono caratterizzate dalle “cancellazioni” (‘72), riscrittura di giornali e annotazioni rapide. Dal 1975, il suo lavoro, comincia ad essere caratterizzato da un impegno culturale e ideologico preciso. Si occupa della posizione dell’artista e dell’arte nella realtà sociale, atterrita dalla violenza e dalla paura. La sua è una confessione di impotenza, servendosi di mezzi espressivi di straordinaria efficacia: la cera, che colando dalla candela, si arresta sulla tela smaltata di nero. Dà luogo, così, a delle figurazioni, che richiamando un po’ lo spirito baconiano dell’uomo braccato, si traducono poi in superfici monocrome riflettenti, quasi in un incontro (la cera nera)-scontro (smalto nero) di due realtà negative, in cui la morte non aleggia ma è “dentro”.
Nel 1976 fa parte del gruppo A/Social che svolge un’operazione nell’Ospedale Psichiatrico del “Frullone”, a Napoli, con la realizzazione di un film (1 ora) e lo svolgimento di alcune “azioni” nel cortile dell’ospedale. Attività, questa, di intervento nel sociale, che verrà riproposta alla Biennale, nello stesso anno. Dopo questa esperienza collettiva riduce l’attività per altri impegni il “nuovo corso” della pittura di Ruotolo, lo vede, dal ‘78, realizzare una serie di opere sul tema “L’uomo e la macchina”. A questo punto, sia l’esperienza politica che quella manuale-sperimentale, maturate precedentemente, ritornano, ma ulteriormente raffinate e facenti parte, ormai, del proprio bagaglio culturale e poetico. Ecco che nascono i primi “identikit” e un quadro dal titolo Foresta meccanica; quest’ultimo verrà ripreso e riproposto nel 1984.
L’ultima produzione artistica di Ruotolo, tenendo presente che ha sempre evitato di rinchiudersi in uno stile ripetitivo, in questo “viaggio” di creatività di quasi trenta anni, procede mediante questa testimonianza personale di libertà permanente. In questo modo, le componenti segni che, gestuali e coloristiche, si ritrovano e riesplodono insieme, in un unico filo conduttore che lo contraddistingue.
[…] Il pittore, in quella mostra da Ganzerli, ci offriva, attraverso i simboli ricavati, immagini indimenticabili di una pittura che sembrava fatta a New York, non a Napoli. Segni, che sembrano labili elementi di una invenzione tutta soggettiva o frammenti di un codice personale, ma che erano, nello stesso tempo, premesse per una costruzione fantastica (ma, poggiata nella realtà) che Ruotolo s’è divertito ad edificare dopo aver smontato, pezzo per pezzo, ogni creazione precedente. Segno per segno, elemento per elemento, gradazione tonale per gradazione tonale, Ruotolo cavava dal cilindro, come un prestigiatore, immagini inattese. Ogni piccola parte del tutto, sottratta al suo mondo precedente, tornava a vivere un’esistenza autonoma con ritmi e cadenze diversi. E evidente che, nonostante gli alti e i bassi di una natura estremamente introversa quanto sensibile agli avvenimenti esterni; nonostante l’adesione integrale a schemi ideologici che possono dimostrarsi anche fuorvianti; nonostante l’esigenza innata di contraddizione; nonostante tutti questi elementi forse non completamente negativi, ma certamente condizionanti, Errico Ruotolo rimane un artista di non comune abilità ed in possesso di un enorme potenziale creativo.
Ruotolo era apparso sulla ribalta artistica napoletana agli inizi degli anni sessanta, precisamente in quella famosa collettiva di giovani talenti, organizzata dalla Promotrice “Salvator Rosa” nel 1961. Questa mostra aveva fatto conoscere ai napoletani i più bravi allievi di Notte appartenenti alla terza generazione, cioè a quella succeduta alla generazione dei De Stefano, dei Lippi e dei Barisani. E appunto De Stefano fu, assieme a Raffaello Causa, uno dei più convinti promotori di questa manifestazione che portò al proscenio, assieme ad Alfano, Pisani, Di Ruggiero, Pirozzi, Palumbo ed altri, il giovanissimo Errico Ruotolo il quale, a quell’epoca, uscito da qualche anno dall’Accademia di Belle Arti di Napoli, era già divenuto uno dei protagonisti della battaglia per il rinnovamento delle arti a Napoli. Se è vero che da quel tempo Ruotolo non smise mai il proprio impegno politico nelle file di un partito di estrema sinistra, è anche da riconoscere che il geniale pittore non fece mai pesare le sue convinzioni nell’elaborazione dei temi artistici che portò avanti con maggiore decisione.
Ruotolo esordì nel pieno dominio dell’informale. Spinosa, Barisani, Del Pezzo, Bugli, Di Ruggero, Emblema, Pisani, lo stesso De Stefano (che aveva dato vita ad un particolare tipo di Espressionismo astratto), e tra gli anziani: Corrado Russo, erano, ciascuno a suo modo, intervenuti nel dibattito sull’informale con invenzioni personali. Ma tra costoro furono i più giovani (e tra di essi Errico Ruotolo) a condurre gli esperimenti più liberi, talvolta sbagliando o esagerando ma, certamente, recando un valido contributo allo svecchiamento artistico della città. Ruotolo assieme a Bugli e Barisani si dimostrò uno dei più fervidi, più fantasiosi e più coraggiosi giovani artisti italiani di questo periodo; i suoi dipinti (per lo più tempere ed acquarelli) diedero all’informale napoletano una svolta sia per l’originale uso del colore che per la varietà dei temi presi a motivo delle opere. Pittore di personali caratteristiche segniche, il Ruotolo dell’inizio degli anni sessanta si divertì a dare vita sulla tela alle più varie manifestazioni di naturalismo astratto non soltanto per l’accertata originalità di un segno che si riduceva a scrittura ma anche per la capacità di invenzione che lo conduceva a dipingere in maniera veramente nuova.
Scrisse di Ruotolo Lea Vergine: ‘Una possibilità di racconto in termini di colore, una successione di presenze luminose animano le tele di Ruotolo, insieme ad una notevole suggestione lirica. Una atmosfera rarefatta che trascende l’esperienza immediata pur essendo vagamente ricettiva del reale…”. Gli ultimi vent’anni sono passati per Ruotolo tra pigrizia e grandi prove. Un personaggio, Errico Ruotolo, che sembra conseguire nella sua innata ironia il distacco dalla città per l’affermazione della sua pittura.
Nella sfera del privato il dolore assume echi lunghi capaci di spingerci in riflessioni i cui toni, critici ed autocritici, si insinuano profondamente nel magico ritmo che regola il quotidiano. È così che il bisogno assale la coscienza e mi fa aggiungere questa postilla introduttiva al testo dedicato al lavoro di Errico Ruotolo: una confessione che rende omaggio al tempo, alla speranza, ad un progetto. È un bisogno che nasce dalla coscienza di testimoniare il dolore che assale chi, come tanti altri, ha per lungo tempo condiviso un progetto. Non è l’emotività a dettare il dolore, a farlo sentire pungente sino a stringere quel nodo alla gola, duro come un sasso che non si ha la forza di mandar giù. Non è al presente che si guarda; il passato muove ancora i nostri animi, accende quelle speranze che infuocarono i ventenni. Un periodo che corre dalle aule della scuola superiore, agli ultimi anni di università, ai primi passi di militanza critica, nel quale si è costruito un progetto che è proiezione per il futuro; un lungo raggio di luce che protegge la speranza della ragione dal buio. Un progetto che oggi esprime, una diversa e rinnovata apertura verso una nuova condizione sociale, e quindi di un diverso ruolo assunto dalla cultura. Esso non è morto; è forte contro ogni riduzione manicheista, contro le esercitazioni mondane, l’asservimento, l’arrivismo bieco di una generazione critica che a tutti i costi vuoi elevare, certa piattezza dei nostri giorni, a linguaggio del tempo. In quel progetto c’è anche e soprattutto la storia, quel bagaglio ingombrante che difficilmente le mode possono scaricare: una storia che è vita di ogni realtà, che agita alla base le nuove tensioni e con la quale il presente verifica il confronto di crescita. E proprio da questo confronto che trae spunto una nuova posizione critica, rispetto ai movimenti e alle personalità che attivano l’odierno panorama artistico italiano: la necessità di verificare un più organico rapporto della critica con la realtà “produttiva”, costruito su un profondo scavo in quel magma di elementi oggi, purtroppo, ridotti a frammenti del processo di crescita. Una critica che sia reale apertura ad una comunicazione corale, come veicolo di crescita sociale, creando un ponte tra centro e periferia, per adeguare il suo linguaggio alle esigenze di comprensione da più parti auspicato. Un’analisi che sia, cioè, profondamente legata al presente storico che viviamo, a quel bisogno di sapere che è veicolo di conoscenza per la società. Uno scavo profondo nel presente, nella verità dei fenomeni, proiettato nelle fessure del quotidiano, nel perimetro esplosivo della città, nel continuo desiderio delle periferie di partecipare al ritmo della città. Non può la critica relegare il suo ruolo a strumento di potere, agitare le bandiere dei pro e dei contro, adagiarsi in sofismi senza aprirsi al confronto dialettico, verificando nella storia i fili sottili che, reggono il presente. Già da tempo ho sottolineato come sia inopportuna, per la precarietà della realtà che viviamo, una critica chiusa nella sfera dell’infallibilità, convinta di possedere il carisma antico della conoscenza, esercitato come mezzo di pressione di gruppi sociali, senza verificare, nel senso più ampio, le nuove aperture teoriche: si conversa, quindi, con Bataille, con Lacan, utilizzando per intero quell’apparato linguistico cerebrale guardandosi bene, però, dallo scendere nella pratica quotidiana, nelle varianti minime e marginali, senza cioè verificare realmente il “presente” e rendere senso corale i segnali contenuti nell’opera. Guardare al linguaggio come coscienza: linguaggio che – ricorda Marx – come la coscienza “sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini”. Oggi più che mai, con la velocità della tecnologia spaziale, che riduce le distanze relegando nel contempo l’uomo al suo privato, si avverte maggiormente il bisogno di un rapporto con il quotidiano, di apertura al dialogo che non sia quello elaborato dall’elettronica. La necessità di superare l’alienazione, quel produrre che sfugge dal nostro controllo generando quell’incapacità di “umana comunicazione” che regna nel presente. E nel quadro complessivo di una più ampia verifica di quei fermenti che hanno e vivacizzano il dibattito artistico napoletano del secondo dopoguerra che si inserisce questa mostra dedicata al lavoro di Errico Ruotolo. Una mostra che non assume significati celebrativi ma che, come lo è stato per le precedenti dedicate a Mario Carotenuto, nel 1982 e a Mario Persico lo scorso anno, si caratterizza per la stringente contemporaneità delle opere esposte, realizzate quasi tutte tra il 1983 e i primi mesi del 1984. Questo per sottolineare come gli incontri teggianesi siano indirizzati più su aspetti esplorativi, quindi di ricerca, in parole povere di laboratorio, che su retoriche celebrative. È un progetto che in luce serpeggia in quello più ampio di un futuro museo, inteso nella dizione di confronto aperto, dedicato alle espressioni artistiche contemporanee nel Mezzogiorno. Il tempo e il colore sono i dati salienti emergenti dalla ricerca che Errico Ruotolo ha attivato in un arco di tempo lunghissimo più che ventennale, in un continuo e frenetico sperimentare di tecniche e di linguaggi. Una ricerca che verifica alla sua base un rapporto diretto e sofferto con la città, con il perimetro della propria esistenza. E nella Napoli del dopoguerra ove Ruotolo trova gli elementi per la sua analisi, in quella città tra il “passato” e il “moderno”, intrinsecamente artistica, superando quel limite dell’estetica idealistica, facendo assurgere l’opera d’arte ad espressione di un complesso di tensioni e stratificazioni sociali: quello che da tempo Argan sottolinea quale “espressione di una somma di componenti non necessariamente concentrata in una persona o in un’epoca”. La Napoli di Ruotolo spazia dalla periferia di San Giovanni alle ciminiere di Bagnoli, al lungo “vivaio umano” di Spaccanapoli, sino ad immergersi nella densa luce delle vetrate di Santa Chiara. È quella tinta omogenea che colora i muri, tra il grigio e il verde, fornendo la base a gran parte delle sue opere, sia quelle di concretezza oggettuale realizzate negli anni Sessanta (e penso a Edificio, 1962 o L’impallinato del 1965) o anche influenzate dalla Pop-art, un po’ alla Kitaj, con una vena narrativa ed ironica, come per le figure di Defiler (1967), sino alle opere di recupero figurale, come Abbraccio capovolto (1978), La vedova, La maschera realizzate sullo scadere degli anni Settanta. È il colore dello spazio esistenziale, ove si verifica il conflitto quotidiano, dal quale l’artista preleva gli elementi per il proprio immaginario: si badi bene che esso non è il riproporre di un definito spazio, non è cioè assunto come scena o fondale sul quale far muovere il teatro di vita. È un alone indefinito, quasi una sorta di pulviscolo che solidifica l’aria, colorando gli spazi tra i piani, amalgamando in un tutt’uno i diversi momenti e le azioni. Ruotolo giunge con la retina a contatto con il “muro” (leggendo Sartre): preleva, quindi, dalla poetica informale l’elemento principale; lo schermo sul quale si proietta la nostra esistenza. Su di esso analizza segni minimi, intimi, ermetici o disegnanti sagome, come ombre, o con oggetti prelevati dall’imagerie quotidiana, ricostruiti con l’affabilità delle “mani”. Nasce così l’immagine che è prima di tutto attualità: verifica attenta di una situazione esistenziale, lasciando via libera al grande possesso di un osservare in continuo aggiornamento. Da questo la sua rinuncia a definire, in uno schema di linguaggio acquisito, la sua ricerca, per aprirsi a continue sperimentazioni di tecniche ma anche e soprattutto di espressioni: Questo rende maggiormente difficile, densa però di un rinnovarsi di stimoli proiettivi e di confronto, la ricostruzione dell’intero percorso artistico compiuto da Ruotolo che copre, come prima si accennava, oltre venti anni della storia napoletana. Un processo di lenta e silenziosa crescita in quell’aria di novità che spirava nella Napoli degli anni Cinquanta, verificata nelle tensioni creative nate in seno al “Gruppo Sud”, al pregnante assorbimento da parte della poetica informale di quegli elementi attinti dalla tradizione: la sacralità, la magia, il rapporto con il quotidiano, agitate da quella ironia insita nella dimensione della città. Una densità di crescita che assume echi di apertura internazionale dapprima con il “Gruppo 58”, e poi con le personalità che disegneranno la silhouette degli anni Settanta. Un momento ricco di nomi e di situazioni che proietteranno Napoli nel circuito più ampio dell’esperienze europee. Una tensione che ritrova, negli anni Settanta in quel breve periodo di attenzione al territorio, il suo maggiore sviluppo in senso di apertura dialettica verso la sfera del sociale: proiezione in luce di quel progetto di partecipazione, di sentita connessione organica dell’intellettuale con la realtà sociale in cui vive. Si profila così quell’analisi marxiana che individua la creazione come “partecipazione”, come mezzo di conoscenza, non alienazione o asservimento ad una classe: è l’intellettuale organico capace di superare il luogo dell’“accademie”, costruendo un dialogo di confronto con un presente storico. Una simile convergenza di spinte che ricorda, come lontana proiezione, quell’unità di valori che Mario De Micheli ha più volte sottolineato per l’esperienza francese della seconda metà del secolo scorso. Di questi fermenti partecipa e si nutre l’esperienza di Errico Ruotolo, attento alle verifiche dei nuovi tempi, traendo forza e fermezza da una profonda analisi: si scoprirà nel suo lungo percorso di “militanza” artistica come sia radicato il convincimento che la verità è rivoluzionaria. In sostanza Ruotolo è, soprattutto nelle azioni, ove si sviluppa appieno il senso corale, legate ad attività di gruppo (si ricorderà che, tra i promotori della “Galleria Inesistente”, così come tra i protagonisti dell’“A/social group”, che realizzerà nel 1976 l’intervento nell’Ospedale Frullone di Napoli, riproposto poi alla Biennale di Venezia dello stesso anno), perfettamente convinto e cosciente della carica rivoluzionaria che la verità, intesa come sentita aderenza alla realtà, possiede. La verità è assunta come unica costante del suo lavoro, dalle opere di matrice informale dei primi anni, a quelle di concretezza oggettuale (Paesaggio, 1975), alle analisi pregne di impegno politico, come le “tensioni” (ma anche in: Paesaggio, 1971, La Stampa, 1974 o Lo spettro del passato, 1975) dedicate agli anni difficili della democrazia italiana ed esposte nella personale alla “Visual art center” del 1975. Sulla stessa linea si rapportano le tele degli anni seguenti, di recupero figurale, non in senso didascalico, ma come approfondimento di un’analisi attenta alla realtà che lo circonda: Il torchio, Linotype, Macchina per cucire, Intervallo, Periferia, sono opere che evidenziano quel bisogno di rinnovato colloquio che l’artista ha d’instaurare con la sfera del quotidiano, in senso di domanda ed offerta di umanità, spoglia di qualsivoglia esaltazione, priva di illusioni, di moralismi. Ed il “ritorno alla pittura”, in termini decisamente non improvvisati o bestemmiati come dettato dalle mode odierne, è anch’esso un elemento di verità, assunta come contrapposizione alla falsa originalità di linguaggio confusa sempre con la novità, posizione comoda di una parte della critica odierna tendente a ribadire che in arte solo il nuovo conta. A tal proposito Gramsci annotava che l’artista, l’individuo in genere, “è originale storicamente quando dà il massimo di risalto e di vita alla “socialità”, senza cui sarebbe un’idiota”. La posizione di Ruotolo, il suo attingere dalla tradizione che è anche pratica, rifiuta quindi quel senso “romantico” di originalità che oggi arieggia negli ambienti artistici, in modo particolare tra i giovani. Certo la sua posizione non è di chiusura conformista: bensì è apertura alla socialità, come momento di crescita, di attenzione agli eventi sociali, nel pieno convincimento che la cultura è patrimonio comune. Analizzando il lavoro di Errico Ruotolo, nel suo spessore di partecipazione ad una storia in continuo, quotidiano, svolgimento vien quasi naturale, in una sorta di biunivoco parallelismo, il rimando con la posizione assunta dal metodo critico di Vitaliano Corbi. Non è perché Corbi abbia annotato, come anche Arcangelo Izzo (Errico Ruotolo: il trittico dell’urlo, Napoli 1981), con lucidissime pagine d’intensità del lavoro di Ruotolo, ma perché esso esprime una forte ed integrale, direi sofferta, aderenza alle problematiche dell’arte napoletana, sentite come forza di crescita, scavando in quel grande bagaglio che è il patrimonio culturale della città. Una ricerca artistica e critica che si allontanano dai luoghi comuni, per assurgere a proiezioni costruttive dense di una pregnante qualità morale, di sfida contro i facili manicheismi. Corbi osserverà come Ruotolo “sa bene che l’arte come non può illudersi di un’azione diretta sulla realtà, così non può limitarsi a fare da specchio a questa” concludendo che la sua pittura offre aperture di spiragli” in quelle regioni della vita, dentro e fuori di noi, che appaiono oggi più oscure ed impenetrabili all’intelligenza”. Come definire il colore usato da Ruotolo nelle ultime opere, guardando con attenzione a quelle realizzate in questo scorcio degli anni Ottanta? È un colore di posizione? Quello che Brandi vede legato direttamente all’immagine artistica, che scivola tra i piani pittorici, graduando la luce dal bianco al nero? 0 è un colore proprio, per intenderci quello dell’oggetto, fisico, materiale? 0, in ultima analisi, è un colore locale, assorbente le variazioni e le modifiche dallo spazio in cui si colloca la figura o l’oggetto? Un quesito che dovrà porsi alla base dell’analisi, tutta ancora di sapore formale, delle opere di Ruotolo, cercando anche di verificare la validità o meno di quel “dinamismo cromatico” cui spesso ricorre la critica trattando delle opere dell’artista napoletano. Accertato che la sua ricerca è intensamente immersa nell’attualità, quindi attenta ad uno scandaglio del quotidiano senza per questo ingabbiare in schemi o forzature le pulsioni immaginative ed evocative, al contrario di renderle libere, assorbendo impulsi ed emozioni provenienti dal bacino della memoria, si osserverà che il colore usato è una sorta di denominatore che accomuna le tre possibili definizioni, che chiamerei di “formazione”. Si guardi ad esempio la tavolozza che realizza il ritratto de’ Lo scultore Di Fiore: è l’occasione emotiva-sentimentale, tutta centrata nella sciarpa, intorno cui ruota l’intera composizione. Al cromatismo acceso della sciarpa si relazionano gli elementi dell’impianto figurale; dal volto alle mani. È come se tutta la forza del personaggio raffigurato sia intrinsecamente contenuta in quella sciarpa: ed è proprio Errico Ruotolo a spiegarlo quando afferma che “essa, vagando per l’Accademia, ci dà il senso della presenza di Di Fiore, anche se è indossata da altri”. Una presenza che è tattile, soprattutto sentimentale, emotiva, costruita nei luoghi del quotidiano, come bisogno esistenziale d’incontro. Così il colore fisico della sciarpa, diviene direttamente legato all’immagine artistica che emerge dalle maglie dell’immaginario, divenendo così di posizione sino ad essere colore locale, assorbente variazioni e modulazioni cromatiche, sul volto e sulle mani. Lo stesso dicasi nel caso del Laocoonte (1984), ove le figure emergono, come epifanie, dal fondo color fumo: una nebulosa indefinita e vagante tra il nero, il grigio e il verde. Un colore che emerge dalla memoria, come evocazione del mito che risale dai meandri dell’inconscio: “ho tinto la tela – spiega Ruotolo nel diario di lavoro – di fumo perché era tutto ciò che avevo in mente di fare; ho voluto così ‘fissare’ il passaggio della nebulosa ed attendevo per coglierne parti diradate attraverso cui poter scorgere e quindi catturare le immagini che risultavano più evidenti. Nel vago della nebulosa era da tempo presente, come un’idea fissa, la classicità del gruppo scultoreo ellenistico” e prim’ancora “aspetto che dal vago mi appare più nitido un particolare, un accenno di colore, una dimensione e una motivazione. Comincio così a comporre i primi frammenti, che possono scomparire dalla mia mente per lungo tempo e riapparire insieme ad altri, questa volta più precisi e colorati. Cerco le corrispondenze e le coincidenze ai miei frammenti che mi accompagnano nel tram, a scuola e in un corteo, a casa, ad una riunione, nello studio, per la strada”. Si noterà come è lo stesso metodo a costruire il dialogo cromatico in Foresta meccanica (1981), una tela di forte astrazione segnica, memoria dell’altra Foresta meccanica realizzata nel 1978 la cui tessitura segnica rimanda ad un’immagine attinta dalla realtà fenomenica; prima ancora è stato in Disastro (1981), Carousel (1981/82) e in Tute blu (1983). Pratica maggiormente verificata in Frammenti o anche in Quelli che volano, opere recenti dense di elementi emotivi ed immaginativi, ma anche allusivi, costruiti da trasparenze e schermature di colore in continua formazione; sino al magma segnico di Dentro la città (1984), ove corre la memoria a quella timbricità grigio-verde delle prime opere, attinta dallo spazio urbano. L’attenzione al perimetro della città pone l’accento sull’uso di un colore locale, verificato tra gli spazi dell’esistenza vissuta nei ritmi quotidiani: la città è il palcoscenico ove si realizzano le sequenze di vita, alle quali Ruotolo sembra porre lo sguardo. Il suo “dinamismo cromatico” non va letto, quindi, come trascrizione rapida, di sensazioni, al contrario come costruzione d’immagini impresse con tempi lunghi di esposizione, sulla retina, durante il quale l’artista affonda la sua analisi, penetra cioè, nei meccanismi costruttivi, nulla togliendo alle sensazioni. Supera la fissità della contemplazione tradizionale del vero ma anche la forzatura di un’originalità ricercata a tutti i costi, rifiutando le manie di una moda che, alla luce di un’apertura internazionale, rende tutti “selvaggi” o scopre comunità giamaicane alle pendici del Vesuvio. La ricerca condotta da Ruotolo sembra approfondire l’impostazione data da Boccioni al rapporto tra impressione e forma, segnalando come sia importante concepire “in una forma la relazione plastica che esiste tra la conoscenza dell’oggetto e la sua apparizione” spiegando oltre, che “la conoscenza dà la costruzione che riguarda le masse componenti l’oggetto… l’apparizione dà la costruzione riguardante le parti che collegano l’oggetto all’atmosfera e agli altri oggetti…”. Ruotolo ad essi aggiunge la carica prelevata all’attività nel sociale, un momento degli anni Settanta segnato da un’apertura degli artisti verso il territorio: quel volere “estendere un processo di aggregazione reale nel tessuto stesso del territori, in modo che venissero entificati e “coscientizzati” i processi dell’esclusione e dell’emarginazione “verificando” un lavoro complesso, ricco di articolazioni e pregno di nuovi significati. In questo contesto di lavoro, non ci sembra comunque di smarrire il nostro specifico, anzi esso viene ad assumere un corpo proprio, in quanto il “mestiere” sconfina nell’analisi del reale in senso esistenziale e sociale, dilatandone i confini” (A/social group, Lettera aperta agli operatori culturali, Napoli, 25 aprile 1977). La ricerca artistica, quindi, come creazione di rapporti, capace di superare il “luogo del puro linguaggio”, ancora privativo, individuale, nozione quest’ultima che le neo-avanguardie hanno attinto da quelle “storiche”. In ultimo i ritratti, quasi a voler proporre un nuovo rapporto con la sfera del “privato”. Errico Ruotolo ricostruisce in essi quel dialogo sul quale Sartre ha lavorato, individuando quella magia che si genera tra l’originale, che ha “il primato ontologico” e il ritratto denso di elementi espressivi riproponenti l’immagine. Ed eccomi a diretto contatto con la mia immagine: non è più quella che lo specchio del mattino rinnova dopo che, ricorda Guccini, “l’acqua fredda in faccia cancella già i sogni e coi bisogno annega la speranza”. È un’immagine carica di riferimenti esistenziali, attenta a rendere nei tratti di una somiglianza fisionomica un ‘espressione che è tutta vissuta internamente. Ho cercato a lungo di dialogare, in quel pomeriggio assolato con quel mio “doppio”, calato in una luce irreale, senza fondo, tutto vibrante in superficie. È un dialogo con il proprio essere; come chiedersi le ragioni dei sogni, delle ansie, la validità di quei progetti che affollano i pensieri quotidiani ed ai quali spesso le risposte sono mute. Guardare il proprio ritratto, cercare di capire il meccanismo che ha spinto l’artista a determinate scelte non è tanto semplice come capita ammirando, ad esempio, la tela dedicata a Carlo Alfano, ove la mente spazia da riferimenti culturali, ad attenzioni iconografiche (l’opera ricorda il rapporto con Lippi – la si confronti con La visita realizzata da quest’ultimo nel 1979 e dalla quale Ruotolo sembra prelevare, come memoria, lo schema compositivo). L’analisi perde quel rimando all’esistente, accentuando la relazione con l’assoluto: quello che Sartre definisce come “laggiù nel passato”. Non è la fotografia che proietta con fedeltà il momento o la circostanza, capace, cioè, di darmi tutti gli elementi per ricreare, anche se ai livelli di memoria, quell’attimo: questa immagine scava profondamente nella mia coscienza, nel luogo ove si consumano gesti stereotipati, dei quali il ritmo quotidiano cancella le tracce.