Alberto Chiancone, La partita a carte

Autore:CHIANCONE ALBERTO

N. - M. :Porto S. Stefano, 1904 – Napoli, 1988

Tecnica:Olio su cartone telato

Misure:40 x 50 cm

Classificazione: Figure, Oli, Figurativi, Moderni

Note Critico - Biografiche

ALBERTO CHIANCONE pittore 

Porto S. Stefano (GR), 1904 – Napoli, 1988

 

La partita a carte

Dipinto di Alberto Chiancone, La partita a carte
“La partita a carte” Olio su cartone telato 40×50 cm

 

 

Chiancone pittore

 

Nel suo volume «La Pittura del Novecento», pubblicato sul finire degli anni Trenta, Ugo Nebbia rilevava a un certo punto l’opportunità di «tenere buona nota della spinta che sale verso l’alto da taluni centri Meridionali, con Napoli e Palermo in testa» dove appunto «germogliano – scriveva – dati propizi all’arte del nostro tempo» e segnalava Alberto Chiancone pittore fra gli artisti «oramai ben definiti».

Quasi quarant’anni sono trascorsi ed è motivo di commozione rivedere riprodotto in quelle pagine ingiallite un dipinto dell’epoca, «Edith col fiore»: poiché quello che fu il giovane pittore che già aveva conferito al proprio linguaggio una connotazione non confondibile, oggi, varcata la soglia della settantina, non solo continua ad essere impegnato in un assiduo lavoro ma attesta in pienezza di quali arricchimenti e di quali affinamenti abbia saputo dotare quel linguaggio, senza mai corromperne o violentarne la matrice ideale.

E subito si dovrà dire che questa matrice è Napoli: la civiltà napoletana quale è andata stratificandosi nei secoli, la meravigliosa sede in cui gli opposti sembrano trovare conciliazione, dove cioè la lucidità del pensiero razionale e lo scatto imprevisto della fantasia concorrono a definire una humanitas che altrove non ha riscontro.

Matrice ideale, certo, ma non limite che abbia trattenuto Chiancone a un focolare autoctono, non chiusura provinciale provocata da un’acritica adesione a una delle tante scuole locali ostinatamente conservatrici che per lungo tempo hanno afflitto l’arte italiana. Si rileverà, anzi, che fin dagli inizi la curiosità intellettuale ha sollecitato Chiancone pittore a saggiare aree linguistiche notevolmente avanzate e sicuramente poco o affatto predilette in quelle stagioni, poco o affatto incidenti, in ogni caso, sul gusto medio collettivo.

Non per nulla, fra il 1925 e il 1928, egli si trovava a far parte del gruppo chiamato degli «Ostinati», che auspicava dell’arte un rinnovamento sostanziale.

Chiancone aveva da poco terminato i corsi di studio presso l’Istituto d’Arte di Napoli e già si immergeva nel fermento delle discussioni e, magari, delle polemiche. Polemica era stata la scelta del luogo d’incontro: il Caffè Tripoli in Piazza del Plebiscito, sito di fronte al più celebre Gambrinus nel quale si davano invece convegno gli esponenti della cultura accademica. Agli Ostinati avevano aderito, fra gli altri, Brancaccio, Girosi e Barillà; con essi avevano aperto un franco dialogo artisti di altra estrazione, come lo scultore Tizzano e i pittori Ciardo, Cortiello e Casciaro, quindi taluni esponenti della seconda generazione del Futurismo, i cosiddetti «circumvisionisti»: Cocchia, Pepe Diaz, Peirce, D’Ambrosio, Ricci e Mario Lepore che più tardi, trasmigrato a Milano, sarebbe divenuto critico militante.

Giusto nel libro «Il pittore», edito anni or sono da Vallecchi, il caro, indimenticabile Lepore dedicò alcune pagine alle vicende del Caffè Tripoli, concludendo che «insomma anche il Tripoli, nella situazione napoletana di allora, diversissima da quella milanese o torinese o romana, ebbe una funzione importante di spinta». Quelle vicende, infatti, non vanno ascritte al velleitarismo di una bohème provinciale ma si innestano nel fitto quadro di quei tentativi che, in ogni zona d’Italia, si posero per obiettivo lo svecchiamento dei linguaggi, la lotta ad ogni formulario stantio e la disamina attenta delle proposte dell’attualità. L’azione intrapresa dai giovani novatori non doveva passare sotto silenzio se nel locale di Piazza Plebiscito vollero recarsi a una volta un Salvatore Dì Giacomo e un Massimo Bontempelli, un Francesco Flora e un Carlo Nazzaro e se, nel 1930, una rivista milanese — L’Arca — in un grafico rappresentante l’Italia indicava negli Artisti di Caffè Tripoli i più significativi di Napoli. Artisti che finirono alla Biennale dì Venezia inducendo al consenso persino di Ugo Ojetti, che novatore di certo non era. Ma, a dir vero, fu Ojetti a sottolineare fra i primi la pregnanza del Chiancone pittore, tanto da pubblicarne il dipinto «Nella funicolare» nella rivista Dedalo da lui stesso diretta.

Stagioni di giovinezza: speranze, entusiasmi, anche dispute tempestose.

Con ciò non si intende attribuite a Chiancone atteggiamenti deliberatamente polemici verso chicchessia, estranei del resto alla sua indole, ma rilevare piuttosto una fermezza nei propri credi che si costituisce quale Tratto distintivo di una intransigenza morale: la fermezza che ha reso possibile lo sviluppo della sua pittura su una linea di esemplare coerenza.

Quali, poi, fossero quei credi, è agevole precisarlo dal momento che le immagini di Chiancone, ieri come oggi, si propongono in cristallina purezza: un’arte di misura umanissima avente la facoltà dì comunicare con immediatezza quel sentimento della vita informato, ad un tempo, da malinconia e speranza, un atto di fede nel destino dell’uomo pur nella consapevolezza della caducità dell’esistere.

Si può dunque comprendere come Chiancone fosse non solo immune dalle tentazioni delle scuole locali ma estraneo anche ai canoni del Novecento restauratore di modi classicheggianti. Era la misura stessa che egli pretendeva necessaria alla sua arte a ripudiare tanto gli scontati schemi del passato quanto le proposte in auge da lui ritenute fittizie.

La sua aristocratica solitudine non poteva accordarsi con le proposizioni programmatiche di un Bontempelli, che del Novecento era di sicuro il teorico più acuto. «L’arte novecentista deve tendere a farsi ‘popolare’, ad avvincere il pubblico… il novecentismo tende a considerare l’arte, sempre, come ‘arte applicata’, ha un’enorme diffidenza verso l’’arte pura’» dichiarava Bontempelli.

Per Chiancone, l’opera doveva invece conchiudere un momento dello spirito, visualizzando a livello emotivo l’armonia del rapporto impostato fra l’io e l’oggetto da rappresentare. Irripetibile e necessaria doveva perciò essere quell’opera. Irripetibile e necessaria come sempre è stata la vera opera d’arte e come egli ben comprendeva attraverso le attente frequentazioni del museo. Perché, se Chiancone pittore ebbe a inquisire da uomo colto gli episodi più importanti della cultura figurativa europea — impressionisti e post-impressionisti, massimamente — in più profonda misura doveva attrarlo il museo e, in particolare gli antichi napoletani, come il Ribera, per calate quindi in strati anche più remoti: agli affreschi di Pompei.

In tal modo si rafforzava in lui l’intuizione della continuità della pittura. Sempre egli ebbe chiara coscienza della necessità di evitare ogni cedimento al dettato di una moda fuggevole e dì porsi, quale obiettivo, la riattualizzazione storica del linguaggio nei termini esatti di una individua vocazione.

Il periodo compreso fra le due guerre assiste insomma alla rapida maturazione dello stile dell’artista.

Pur giovane d’anni, Chiancone ha ormai, come si suol dire, le carte in regola e verso la sua opera s’appunta l’interesse della critica più avvertita.

Nel 1931 è invitato per la prima volta alla Biennale di Venezia e questa partecipazione si risolve in un successo: un’opera viene acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, un’altra dal Museo Civico di Udine. Sono le prime aperture verso quel circuito internazionale cui verrà chiamato con ritmo frequente figurando alle mostre d’arte italiana a Praga, Varsavia, Cracovia, Poznan, Bucarest, Sofia, Budapest e Vienna, quindi alle esposizioni internazionali di Barcellona e di Parigi.

Nel 1937 ottiene il Premio Sanremo per un affresco. Sì trattava di un premio unico di 50 mila lire: una somma assai notevole per quei tempi, tanto da indurre giornali e riviste italiani e stranieri a lunghi commenti.

«Per alcune settimane — dice Chiancone con un sorriso che fa da maschera al nativo pudore — sono stato assediato da giornalisti, da critici d’arte e da fotografi… ».

Insisto nel porre a fuoco queste tappe dell’itinerario di Chiancone perché, innestandosi in un tempo lontano — il calendario della nostra vita ha ritmo fin troppo veloce — esse sono ormai coperte dal velo dell’oblio: dimenticate o quasi dalle generazioni successive.

Per la stessa ragione mi sembra opportuno segnalare la presenza di Chiancone al Premio Bergamo del 1940. Chiancone vi è invitato nel gruppo dei «fuori concorso» assieme a Campigli, Casorati, De Chirico, De Pisis, Funi, Monti, Paulucci, Rosai, Saetti, Semeghini e Severini. È questo un episodio a mio parere, estremamente significativo, non soltanto per il fatto che Chiancone è ormai considerato fra i maggiori esponenti dell’arte italiana del tempo ma soprattutto, direi, in ragione della particolare impostazione del Premio Bergamo. Rispetto a fin troppe altre rassegne coeve — ad esempio il Premio Cremona — il Premio Bergamo si caratterizzava infatti per la volontà di rappresentare quegli artisti che operavano in consonanza con una cultura risolutamente svincolata dalla linea novecentista.

Sarà opportuno, a questo punto, un breve intervento chiarificatore.

È certo facile rilevare i limiti provinciali del Novecento a una verifica retrospettiva. Difficile era identificarli allora, sotto l’urgere di un acceso dibattito, sotto la pressante invadenza delle proposte. Chiancone pittore e pochi altri hanno saputo però lumeggiarli.

Molto è stato scritto sul Novecento italiano: spesso con intendimenti faziosi, spesso anche con un metro di giudizio fin troppo generico, sia da parte di chi intendeva celebrarlo che da parte di chi voleva negarlo. Il discorso va dunque riportato su equo piano.

Si noterà allora che il Novecento si inquadra in quel più vasto movimento tendente a un retour à l’ordre che coinvolge gran parte dell’arte europea e americana a partire dalla fine della prima guerra mondiale. Era, quel movimento, l’inevitabile conseguenza di un bisogno di ripensamento subentrato alla tensione rivoluzionaria del primo decennio del secolo che aveva determinato l’avvento del Fauvismo, del Cubismo, del Futurismo e dell’arte astratta nelle sue molteplici articolazioni «A la fin tu es las de ce monde ancien» aveva detto Apollinaire. Adesso Valery scorgeva nell’artista un Amleto intellettuale, stanco per tante fatiche eppure stimolato a ricominciare l’opera interrotta. Tuttavia, riprendendo il suo discorso sulle rovine disseminate dalla guerra, l’artista si proponeva l’instaurazione di un «ordine» e ritornava ai modelli dei grandi costruttori del passato: i Giotto e i Masaccio erano i logici punti di riferimento della ricerca italiana. Dopo tanto smarrimento, insomma, l’artista tendeva di riconoscersi nei valori sicuri legittimati dalla storia.

Così enunciato, il proposito non fa una grinza. Ma tale proposito era destinato a rimanere sul piano delle intenzioni poiché, da noi, eccettuate poche personalità, il Novecento doveva naufragare in un recupero fastidioso e greve di forme desunte dalla cultura figurativa classica, incapaci di adeguarsi allo spirito dei tempi. All’invenzione si sostituisce in tal modo la convenzione linguistica, alla necessità poetica la magniloquenza retorica.

Il Novecento decadde ben presto nella palude del provincialismo. Di qui la reazione degli artisti più avveduti: quelli del Gruppo dei Sei di Torino, della Scuola Romana e, più tardi, di Corrente a Milano. E di qui anche la ragionata opposizione al Novecento di talune manifestazioni, come appunto il Premio Bergamo. Ecco perché si diceva che la convocazione assume, per l’artista napoletano, un valore anche più alto di un inserimento fra gli artisti fuori-concorso. Essa risuona come riconoscimento a una linea operativa perseguita al di fuori degli schemi in auge.

Ne’ la coerenza di Chiancone pittore verrà meno dopo il 1945 quando la cultura figurativa europea è accostata da numerosi artisti, anche della sua stessa generazione. L’impatto con tale cultura — specificamente il post-cubismo in generale e Picasso in particolare — non fu sempre benefico. Di fronte ai pochi che seppero filtrarla e adattarla alle individue predilezioni, si staglia un esercito di inutili imitatori. Se riandiamo per un momento a quel periodo, dovremo convenire che un ennesimo manierismo ebbe ad instaurarsi in Italia provocando non pochi equivoci: sugli altari salirono per l’espace d’un matin artisti di cui la memoria nemmeno serba il nome, le collezioni s’infittirono di opere che presto sarebbero finite ad ammuffire negli scantinati. Anni ancora sarebbero stati necessari per rielaborare su salde basi le nuove problematiche, l’avvento, per di più, delle giovani generazioni.

Chiancone proseguiva dunque per la strada intrapresa fin dalla giovinezza, ancora una volta evitando le contaminazioni pericolose, le dispersioni in zone culturali lontane dai suoi principi. Ma va pur detto che la cultura che gli altri ritengono di scoprire, Chiancone l’aveva meditata quindici, vent’anni prima: non solo gli Impressionisti, non solo Bonnard ma anche Matisse, anche il primo Picasso erano stati da lui attentamente saggiati. Nessuna sorpresa, quindi, e nessun disorientamento: l’artista era premunito in forza della sua stessa formazione.

Egli continua così a operare nei termini di uno stile puntualmente concluso, continua a partecipare alle maggiori rassegne e nel 1954 ottiene il primo Premio Michetti ex-equo con Pompeo Borra, cui faranno seguito altri riconoscimenti.

Gli anni passano, immutata rimane la fedeltà a un criterio linguistico.

La fedeltà linguistica è il riflesso della fedeltà alla propria terra.

Infatti, l’oggetto da rappresentare — l’oggetto con cui entrare nell’armonioso rapporto cui addietro s’è accennato — sempre si è disteso glorioso dinanzi allo sguardo dell’artista: Napoli e le campagne attorno, dove l’odore della terra si confonde con l’odore del mare: un paesaggio abbacinato dal sole del meriggio che sbianca i muri e le acque, o immerso nel crepuscolo che sospinge l’ombra in ogni cavità fino ad alleggerire le cose, a renderle simili a sostanza impalpabile; e l’umanità napoletana fissata in una summa di tipologie colte nella realtà della strada o degli interni domestici. Erano temi che avevano incantato il ragazzo che ancora ignorava il suo destino di artista e con i quali riempiva i quaderni di scuola, i temi ai quali era avvinto da un indissolubile nodo d’amore.

Mi dice l’artista: «Più che sentire il paesaggio di città, ho sentito il colore e la poesia delle campagne fuori porta, principalmente quelle delle plaghe vesuviane, ora verdeggianti ed ora plumbee, dove, di tanto in tanto, contadini e operai siedono all’osteria. Ho amato — e si tratta di un amore portato nel mio cuore sin dall’infanzia — il mare, le spiagge dove barche, pescatori e bagnanti appaiono come un colorato contrapposto alla distesa spesso abbacinante delle acque e del cielo. Ho così girovagato per i lidi e i porticcioli di Castellammare di Stabia — le strutture dei cantieri navali sembravano una filigrana contrapposta alla parete del cielo — e, di Amalfi, delle isole di Ischia e di Ponza. Ho sentito il bisogno di cogliere il bianco di quelle case accosto alle spiagge, alla vita del mare. Nel contempo la mia pittura s’incontrava con le persone del mio mondo, quello familiare, quello delle strade, quello degli interni napoletani; e, per un fatto di colore e di ritmo, le ballerine, i personaggi del circo, i pulcinella: gli ultimi pulcinella. Un mondo di madri, di bimbi, di madri con i bimbi, e poi fanciulle e donne, che hanno i tratti più spiccati della napoletanità: la struggente malinconia. E così giovani donne alla finestra, o che danno l’ultimo tocco alla loro toilette, e che lavorano di cucito, che stirano, che conversano, che si confidano, che talvolta indossano un abito sgargiante come una sfida al loro umile destino».

Non sono uso a riferire le dichiarazioni degli artisti, preferisco di consueto svolgere un discorso critico senza interferenze di sorta. Ma queste parole di Chiancone non posso fare a meno di trascriverle in quanto s’innerva in esse il senso della sua pittura, onde ne costituiscono il miglior viatico all’intelligenza.

Esse confermano, altresì, che Napoli rappresenta il grande amore di Chiancone, l’amore che mai lo ha ingannato.

Così, in termini espliciti, chiaramente riconoscibili, come accade negli scorci paesaggistici, oppure in termini allusivi, come accade invece nelle figure, la protagonista della sua pittura è questa città, stupenda e unica.

Una città che, prima, di situarsi in una geografia fisica, appartiene alla geografia del cuore.

Protagonista, Napoli lo è stata fin dai tempi in cui pittore era giovane ma «oramai ben definito», e lo è tuttora al culmine di una lunga vicenda che annovera anche la tragedia della guerra e le stagioni tumultuose del dopoguerra e l’epoca successiva, più distesa ma non serena.

Per altri Napoli è stata a più riprese il pretesto per far della pittura un veicolo di astrazioni ideologiche oppure di verboso populismo. Strumentalizzazioni di questo onere nascono esterne all’amore e risultano alla fine tendenziose e futili. S’accampano con la pretesa di essere testimonianze e disvelano invece, sin da una prima verifica, la forzatura tutta retorica di coloro che sovrappongono a una realtà tesi assolutamente personali, ad esse subordinandola e impietosamente deformandola.

Per via differente, ed anzi opposta, si è messo Chiancone. Appunto in ragione dell’amore, egli ha potuto identificare l’immutabilità dell’animus più vero di Napoli, che nessun avvenimento lieto o triste, la guerra e il dopoguerra, e nessuna trasformazione avvenuta in superficie hanno potuto intaccare. Melange di malinconia e speranza, s’è rilevato. E si noterà adesso che siffatta commistione sentimentale costituisce il segno identificativo della temperie interiore di Chiancone, la quale spontaneamente si accorda con la temperie stessa della città prediletta.

Su tale via, nei dipinti di Chiancone viene a prospettarsi una Napoli calda d’intimi sensi, vera e credibile, una Napoli che si rivela e si confessa, e afferma la qualità del suo umano aprirsi alla vita: profonda, pensosa malinconia che ogni gesto intride; mestizia remota che sale da oscure fibre per incidere ogni volto; aria di antica solitudine che si coagula nelle pietre, negli oggetti pregni di memorie immoti in una stanza; soffusa tristezza che serpeggia financo nel dilatarsi azzurro del cielo, nel distendersi possente del mare. Un sentimento complesso, nel quale confluiscono le asprezze di una storia fin troppo lunga, dall’uomo sopportata e patita, così che persino la sapida, prorompente ironia o il canto d’amore che trabocca estenuato e teso si palesano a guisa di una fuga verso la salvazione o, meglio, verso la sopravvivenza.

È in quella fuga che Chiancone riconosce l’eterna, incrollabile speranza dell’animo napoletano: senza sforzo, senza mediazioni intellettualistiche ma per l’illuminato suggerimento del cuore, intima e trepida essendo la sua partecipazione a una vicenda e a un destrino.

L’immagine di Chiancone viene a collocarsi in tal modo in un punto equidistante fra realtà e fantasia: nel punto in cui la realtà si trasfigura per divenire proiezione del contenuto interiore dell’artista. La cadenza che contrassegna questo iter è una cadenza poetica. Il termine non deve apparire generico, dopo quanto è stato fin qui rilevato. La poeticità di Chiancone — è persino ozioso puntualizzarlo — rifugge sia dal lirismo di timbro patetico che dall’empito drammaticamente declamatorio. Essa si fonda, piuttosto, sulla virile accettazione del tempo che corrode uomini e cose.

Poetica versione di una verità ritrovata al fondo della coscienza.

I documenti più leggibili di questa verità — verità amara ma accettata con la serenità che l’uomo forte oppone alla legge ineluttabile — sono rappresentati dalle figure di adolescenti e di giovani donne. Esse vengono evocate nel cerchio di una solitudine antica, sono nutrite di silenzio. Paiono figure ritolte alla consecutio temporale: figure perenni. Così furono ieri, e l’altro ieri, e così saranno domani, poiché questa è la condizione umana di cui Chiancone ha avuto lucida percezione nella frequentazione della sua terra.

Esse stanno alla finestra guardando scorrere la vita attimo dietro attimo; indugiano ad accarezzare un sogno fuggitivo, sedute accanto a un tavolo oppure mirando l’accendersi lieve della fiammella di un fiore; ed anche si propongono insieme, a due o a tre, tentando un colloquio che si indovina arpeggiato su una trama di acerbe illusioni, destinate a infrangersi al primo urto con il muto sordo dell’esistenza, ma per riprendersi subito, e ricomporsi, e sfidare l’ostile monotonia dei giorni, non certo per voluttà d’autoinganno ma per «resistere e superare», secondo l’auspicio montaliano. Tanto che la meticolosa cura con cui una ragazza scioglie allo specchio la sua chioma o il fiore che, in un’altra, rosseggia fra i capelli, o le seriche vesti e certe positure, anche di fanciulla che imita la donna non suonano quali notazioni salaci, quali ironici accenti: sono peculiarità che rafforzano, per contro, l’aria di greve personalità di cui s’avvolgono.

Un’aria umanissima.

C’è poi la stessa che circuisce anche la giovane madre che accoglie fra le braccia la propria creatura, pegno d’amore, sicuramente — di quell’amore inseguito nelle fantasticherie dell’adolescenza — ma in pari tempo, adesso, simbolo di dedizione e di sacrificio: dal momento che se la vita è prodiga di doni, ogni dono è bifronte, e la gioia cela il dolore, e la dolcezza l’amaro, e l’abbandono la fatica, e l’illusione il disinganno. Verità, anche queste, che Chiancone è andato accertando similmente a un saggio, per umane penetrazioni d’esperienza e che ha poi trasmutato in materia poetica, giacché è nella sua indole ripudiare la pedante insistenza del racconto edificante e, con essa, l’ammonimento moralistico.

Indole, del resto, che si svela con uguale chiarezza quando egli affronta la tematica del lavoro, presso tanti altri svolta nei tratti di un dramma non sentito e, magari, di un manifesto sociologico per vezzo di moda, al punto che a rimanerne esclusa è la figura stessa del lavoratore. La scelta di Chiancone pittore s’appunta, anche qui, sul lavoro umile, nient’affatto clamoroso, ma sempre denso di fatica oscura, di quotidiano sacrificio.

Ecco infatti le sue sartine o le sue stiratrici, per le quali Marziano Bernardi ebbe ad osservare una decina d’anni fa: «Il pittore napoletano è in genere quasi fisiologicamente portato ad amare la realtà concreta, visiva e tattile, e a goderne le peculiarità cromatiche. Ma non si creda che questa sua condizione di gusto gli faccia velo alle esigenze di rinnovamento che, premendo da ogni aspetto della vita contemporanea, si rivelano più acute nel campo dell’arte. Con un motivo ripetuto fino alla banalità dall’aneddottismo veneziano al bozzetto toscano, qual è un interno di sartoria, Alberto Chiancone, senza il minimo sacrificio di preziosità pittorica sa darci una splendida pagina di acuta modernità stilistica». Ch’è rilevamento puntuale, con il quale senza riserve m’accordo, in quanto mette a fuoco, soprattutto, la facoltà dell’artista di superare i brevi limiti del bozzetto d’occasione, del racconto di respiro fragile e minuto, per riscattare il contenuto al livello di una limpida intuizione poetica.

È insomma, ancora una volta, la vita che fornisce all’artista l’occasione di poesia — e Chiancone sa catturarla, quell’occasione, e bloccarla quindi nell’esclusività di una immagine declinata su una misura tutta interiore.

Accadrà con le altre innumerevoli figure cui egli si accosta — marinai e sciantose, piccoli borghesi al bar e comitive di popolani all’osteria — dal momento che il linguaggio è uno e inconfondibile, esatta proiezione del suo sentimento della vita. Accadrà perciò anche con le ballerine, ch’è fra i suoi temi più cari.

Al nostro sguardo, infatti, le ballerine — in attesa di raggiungere le tavole del palcoscenico o appena rientrate dietro le quinte — assumono la particolare consistenza di personaggi trafitti da una sorte in tutto simile a quella che contrassegna le altre figure, quasi esse siano consapevoli che il gioco scenico altro non nasconde che una metafora dell’esistenza, un momento di esaltante vitalità destinato, una volta spente le luci, ad assorbirsi nella memoria per far luogo ai gesti comuni imposti dalla monotonia delle ore, delle stagioni.

Di questo girotondo della vita Pulcinella è maschera altamente significativa. Su Pulcinella è cresciuta una foltissima letteratura, penetranti analisi sono state fatte della maschera da parte di esperti, sicché sarebbe superfluo intrattenersi in questa sede. A me pare, tuttavia, che Chiancone evidenzi nei suoi Pulcinella i tratti essenziali dell’animus napoletano quali sono stati fin qui delineati: nell’arguzia di Pulcinella l’artista adombra una secolare saggezza, nella sua mimica un’ansia di vivere che è gioia, è speranza, è magari illusione; nei suoi abbandoni, infine, la profonda malinconia che fa da contrappunto al volto stesso della città. In tal modo, nel contesto dell’opera di Chiancone pittore, i Pulcinella si collocano come sintesi di una pluralità di esperienze. Dalla loro interpretazione traluce ancora una volta, e nella più vivida pulsione, la spirituale adesione dell’artista al cuore di Napoli.

La temperie sottile eppure complessa che alita sulle figure trasmigra anche sui paesaggi.

Il connotato della realtà resiste nei suoi termini fondamentali ma è sottoposto a un processo di interiorizzazione, vuoi quando Chiancone dilata l’immagine nell’ampiezza del respiro panoramico — riprendendo, ad esempio, la costiera amalfitana o la campagna vesuviana — vuoi quando invece egli preferisce strutturare il dipinto nell’evidenziazione di uno scorcio particolare: un balcone fiorito, un lembo di strada, i capanni sulla spiaggia.

Nell’un caso e nell’altro il dialogo che Chiancone imposta con la realtà si trasforma in un’immersione nella realtà stessa, in un sereno naufragio nei colori e nelle luci, e più esatto sarebbe dire: nei profumi e negli umori, negli aromi e nelle linfe di quella porzione di natura riconosciuta, per le vie misteriose dell’intuizione, capace di accordarsi con un momento del suo spirito: «poiché i paesi — come scriveva Piero Girace or sono più di tre lustri — per lui sono ‘personaggi’ che hanno i loro umori buoni o cattivi, e che potrebbero raccontare storie di giornate di sole o di pioggia, di esultanza o di tedio ».

Così concepito, il paesaggio è simile a scrigno che lascia intravedere i suoi ori segreti: l’esaltante solarità di un inno panico, l’idillio campestre modulato sul flauto di Pan, anche l’amaro sortilegio del franare lento e inesorabile delle cose. Né, da veneto, posso esimermi dal riconoscere la sua capacità di penetrare quell’altra Napoli, screziata d’oro bizantino, ch’è Venezia, accostata nel corso dei suoi viaggi nel Nord: rare volte, infatti, m’è accaduto di imbattermi in dipinti che, come questi, abbiano saputo esprimere di Venezia il clima svariante fra languido scoramento e solinga dignità. La Venezia di Chiancone sarebbe piaciuta a Cardarelli.

Questo breve discorso sta ormai avviandosi a conclusione ed è opportuno perciò porre in evidenza quanto fin qui era rimasto sottinteso: la qualità della divisa stilistica dell’immagine, avendo preferito lumeggiare per prima cosa la significazione. Era rimasta sottintesa e però risultava persino ovvia in quanto non è data significazione senza la qualità. L’opera sarebbe rimasta altrimenti allo stadio dell’intenzione: un tentativo o un abbozzo, non già la pagina poetica sulla quale si è più volte insistito.

Non è comunque il caso di indugiare in lunghe verifiche di tipo formalistico né in letture di tipo filologico perché l’immagine di Chiancone non ha bisogno di troppe esplicazioni: «sa parlare» da sé e s’avvale per comunicare di una parola limpida e diretta. Essa ha il dono della semplicità, ch’è forse d’un artista la conquista più importante, e la più difficile.

Qualche considerazione, tuttavia, conta d’essere fatta. Se quell’immagine è informata dall’emozione che scatta improvvisa, essa obbedisce nel suo farsi a un criterio stilistico che la governa in ogni sua parte, assegnandole unitaria cadenza. Si tratta di un criterio stilistico che riconosce al colore il valore di medium primario. Al colore, infatti, essa per intero s’affida. L’impianto disegnativo viene in tal modo assorbito da un colore ch’è, insieme, misura di luce, di spazio e di volume e che, pennellata dietro pennellata, sempre si definisce in senso strutturale.

Quanti hanno commentato l’opera di Chiancone si sono intrattenuti su tale prerogativa. Nel 1958 Alfredo Schettini vi riconosceva «una gamma di colori armoniosi»; tre anni dopo il citato Girace metteva in risalto «la preziosità della materia, un rosso cardinalizio, o un viola vescovile, o un nero di antracite, o un rosa stinto, o un blu smagliante, o un bianco distrutto, che scattano come segno distintivo dalla fusione delle gamme e danno, oltre che la testimonianza di un gusto raffinato, una vitalità al dipinto», e contemporaneamente Carlo Barbieri notava ch’è il colore «che regge ormai sovrano la scena del dipinto, arguto e prezioso insieme, perché insaporito da un effluvio acidulo e primaverile».

Sono osservazioni senz’altro acute, che recano però date relativamente lontane. Altri e decisivi passi Chiancone ha compiuto sulla via dell’affinamento, così che quel colore si distende adesso sapido e corposo, in una ricchezza di gamme a dir poco inconsueta, certo obbedendo nella calibratura generale a un principio tonale ma pronto anche ad accendersi per contrasti di variegate campiture e per interni guizzi di luce. Un colore che ha il potere di intonarsi sulla nota alta e vibrante come di elaborare un sottofondo di delicate armonie: strumento che Chiancone ha portato ai vertici della risonanza al fine di impiegarlo in tutta la varietà dei suoi registri, in esatta rispondenza al mutevole volgere della sua sensibilità.

A tale esito hanno concorso cinquant’anni di impegno assiduo, poiché non v’è chi non riconosca come in quella sapiente manipolazione cromatica rifluiscano l’alta lezione degli antichi e la riflessione critica di quelle prove dell’arte moderna predilette dalle punte avanzate della generazione cui Chiancone appartiene. Ed è giusto pervenendo a perfetto connubio che modernità e museo garantiscono all’opera una durée, termine disinvoltamente accantonato in tempo di sperimentazione oltranzista e che dovrebbe essere invece tenuto in debito conto quale metro di scelta qualitativa.

È dal colore, infine, che consegue la Stimmung d’ogni dipinto. Termine desunto dalla cultura critica tedesca e da noi intraducibile nel suo significato compiuto, Stimmung allude all’inverarsi di un’atmosfera esteriore che penetra, e potenzia, l’atmosfera interiore. Esso è perciò del tutto pertinente all’opera di Chiancone, costituendone il tratto caratterizzante, la sigla della sua personalità creativa. Da quell’atmosfera l’osservatore è sùbito avvolto, per mezzo di essa può introdursi nel dipinto, avvertirlo come organismo vivo e pulsante, cogliere a propria consolazione l’umana parola che ne scaturisce.

Proprio parlando di Stimmung viene a focalizzarsi il nucleo di questo discorso critico, poiché riconoscerla nell’opera di Chiancone significa un’ulteriore comprova del processo di interiorizzazione cui egli ha sottoposto l’immagine muovendo dalle prime prove giovanili per giungere ai dipinti di più recente datazione: un processo che mai ha subito arresti, che è stato costante fino a convocare ogni suo sforzo, fino a mobilitarlo nella totalità del suo spirito.

In virtù di essa all’osservatore è dato di accogliere un messaggio che rivela ciò che era stato fino a quel momento solamente presentito in modo incerto o vago o che rimaneva addirittura incognito nell’opacità di un’ ombra.

Ben potrebbe adattarsi allora all’opera di Chiancone pittore quella breve meditazione che Delacroix fissa nel «Diario» nel settembre 1854: «E il carattere che l’artista imprime alla propria opera, che ne fa l’opera di un inventore. Lo scienziato scopre gli elementi delle cose, se si vuole, e l’artista con gli elementi senza valore, là dove sono, compone, inventa un tutto, in un’a parola: crea. Colpisce l’immaginazione degli uomini con lo spettacolo delle sue creazioni e in modo originale concentra, rende chiaro per la maggioranza degli uomini — che non vede e che non prova che sentimenti assai vaghi in presenza della natura — le sensazioni che le cose risvegliano in noi».

Anche Chiancone ha «inventato un tutto», ha cioè fatto dell’opera un microcosmo unitario che vive di vita autonoma in quanto riconduce a sintesi significante le esperienze da lui consumate sotto il segno dell’amore nel suo microcosmo napoletano.

L’intrinseca qualità dell’opera di un artista non è, ai nostri giorni, elemento sufficiente a imporne un’adeguata conoscenza.

Io stesso — che pur m’illudo di essere attento allo svolgimento delle arti e che mi costringo spesso ad addentrarmi oltre i panorami bene ordinati nella successione di cause ed effetti, che amo anzi scandagliare anche i fondali di un passato prossimo per ricercare sotterranee connessioni o solitari episodi — non avrei avuto modo di approfondire l’opera di Chiancone se essa non fosse stata esibita in una galleria milanese, così da impormi un’inquisizione non occasionale. Né potrei giustificarmi con motivi generazionistici, giacché essi s’infrangerebbero contro il senso stesso della storia.

No, le ragioni sono più complesse e affliggenti e di esse farò cenno più oltre. Dico però che è tempo di rivedere e di rimeditare con serietà di intenti l’opera di Alberto Chiancone.

Con ciò non si vuol dire che egli sia un artista dimenticato: per accertarsi intorno all’interesse manifestato nei suoi confronti da parte della critica provveduta è sufficiente scorrerne il repertorio bibliografico. Si vuol dire, invece, che Chiancone deve essere dimensionato con giustezza nel lineamento storico dell’arte moderna italiana, non come occasionale comparsa bensì come legittima presenza. Se tale sistemazione è avvenuta solo parzialmente dipende soltanto dai due vizi di fondo che ipotecano la storiografia odierna.

Il primo vizio consiste nelle schematizzazioni di comodo che la storiografia elabora, esemplificando le tendenze di linguaggio con la convocazione di talune personalità e ignorando altre e più complesse situazioni che a quelle tendenze si sottraggono. Il secondo vizio — al primo, però, intimamente correlato — concerne l’insistenza sul dibattito delle poetiche. É un dibattito che diventa acceso e polemico, che diventa aggressivo e persino fazioso e che trascura in misura sempre più allarmante l’esigenza fondamentale dell’atto critico, ch’è quella di identificare i valori. L’attenzione rimane in tal modo ancorata esclusivamente sulle proposte cosiddette attuali, su avanguardie che solo in pochi casi sono tali, più spesso rivelandosi stanchi recuperi di già remote esperienze.

A questi vizi va aggiunto un fattore di ordine diverso, in senso generico: di costume.

Esso riguarda la carenza di comunicazione culturale fra Nord e Sud. Può sembrare un rilievo paradossale ed è invece una realtà amara. Ad onta di tutte le retoriche affermazioni ufficiali, una profonda dissociazione sussiste ed è il Mezzogiorno a farne le spese.

Napoli continua ad essere un grande centro di civiltà in esilio.

Per trovare inserimento ufficiale nei circuiti culturali i suoi artisti sono costretti a migrare nel Nord, soprattutto a Milano. Chi non intende recidere i vincoli con la città materna è esposto al rischio di rimanere nell’ombra, di non trovare, in ogni caso, la considerazione che gli spetterebbe di diritto.

Sì dovrà aggiungete anzi che rispetto al passato la situazione ha subito una preoccupante involuzione, la cui precipua va identificata nel progressivo, inarrestabile accentramento della produzione culturale e del mercato in talune città settentrionali. Difficilmente, ormai, è dato di reperire valori al di fuori delle mura di quei castelli kafkiani: le giornate sono brevi, gli impegni sono molteplici e inchiodano chiunque alla propria area di interessi, per cui più agevole è la verifica delle proposte internazionali che vi vengono rappresentate che non di situazioni italiane e però esterne ai grandi centri settentrionali.

Realtà amara, certamente, se si pensa che ad essa va imputata alla dimenticanza di molti episodi del passato e la dispersione inevitabile di molte forze vive del presente.

Per fortuna la personalità di Chiancone è ormai stata recepita nella sua importanza, definita nei suoi valori: io ritengo che nessuno studioso possa ormai ignorarla. L’inclusione di Chiancone in un prossimo lineamento storico dell’arte italiana costituirebbe la fatale conclusione dell’arco ideale lanciato da Ugo Nebbia in un tempo ormai lontano. E non sarà ricompensa, ma atto di giustizia.

Atto di giustizia, per di più, che verrebbe a coincidere con una fra le stagioni più fervide di Alberto Chiancone. Nell’età matura, il suo cuore di poeta sembra godere di giovinezza splendente: lo attestano i più recenti dipinti ricamati col filo di un’incantata elegia.

Carlo Munari
STORIA DI NAPOLI E DELLA SICILIA – Società Editrice – 1979

 


 

Chiancone pittore a poco più di venti anni fu uno degli elementi più giovani e vivaci che nella sede del famoso caffè Tripoli nella Piazza del Plebiscito a Napoli, compirono l’operazione di rottura con la ormai stanca pittura epigonale ottocentesca. Nel 1937 Chiancone Alberto venne alla ribalta nazionale con il conseguimento del Premio di Pittura San Remo. Sue opere figurano nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Museo Civico di Udine, Galleria d’Arte Moderna di Latina, Accademia di Belle Arti di Firenze ed in altre Pinacoteche Pubbliche. Tra i rinnovatori della pittura a Napoli negli anni dell’immediato dopoguerra, Chiancone non ha mai rinunziato alla sua formazione e a quella fedeltà all’immagine che lo aveva distinto fin dalle prime prove. Chiancone pittore di grande talento, ha saputo sottrarsi ad ogni facile descrittivismo, anche quando la tematica (Pulcinella) sembrava inevitabilmente pesare con la sua oleografia.

 


 

Chiancone fu, giovanissimo, uno del gruppo degli «Ostinati» che negli anni dal ‘25 al ‘30 si ponevano il programma di rinnovare l’arte napoletana. Seguendo la sorte di quel gruppo, egli aderì al movimento novecentista. Chiancone non si accontentava di arrotondare i volumi e di «far monumentale», come era di moda in quegli anni, ma mirava a conservare un minimo di calore e a salvare quella vena di intimità coloristica che caratterizzò la sua pittura fin dall’inizio. Di lui ricordiamo un bel quadro esposto nel ‘30, in cui l’immagine, sebbene mantenuta nell’ambito della stilizzazione convenzionalmente accademica, conservava una sua forza intima ed un certo valore come documento di costume. Vanno inoltre ricordati alcuni dipinti di nudi esposti qua e là, negli anni successivi alla fatidica data del 1930. Dopo, quando l’artista si liberò con fatica di quel formulano che aveva avvilito tanta pittura nostrana, Chiancone affrontò il vero con disarmante innocenza come chi deve fare tutto da capo. Il sensibilismo a cui l’artista giunge è qualche volta improvvisato. Dopo il 1950 la pittura di Chiancone si inserisce naturalmente tra i «Chiaristi» italiani, con influenze varie che vanno da Tosi a De Pisis, Da Seme­ghini a Bonnard, insomma in un clima di nobiltà figurativa che riscatta le iniziali incertezze dell’artista. Nella sua pittura c’è anche un tentativo di realismo magico, sulla scia di cene opere di Virgilio Guidi, come nel dipinto Funicolare che rappresenta l’interno del veicolo con un tentativo di analisi psicologica dei vari personaggi rappresentati. I motivi della sua ispirazione sono molteplici e vari, e vanno dai paesaggi alle composizioni, ai ritratti, alle scene teatrali, alle nature morte, alle ballerine danzanti o in posizione di riposo. Il tragitto percorso da Chiancone pittore è notevole, se si considerano i dipinti realizzati dal 1930, quando i modelli apparivano immobili e come raffreddati dal formalismo novecentesco.

Paolo Ricci, da “Arte e artisti a Napoli”

 

 

 

 

 

 

Marciano Arte galleria d’arte e cornici, Napoli

Salvatore Marciano

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