Autore:DE STEFANO ARMANDO
N. - M. :Napoli, 1926 - 2021
Tecnica:Olio su tela
Misure:100 x 130 cm
Anno:VENDUTO
Classificazione:
L’opera è firmata e datata in alto a destra “A. De Stefano 1962“. Un dipinto di Armando De Stefano molto simile al nostro qui in immagine, ma molto più piccolo, fa parte della Raccolta contemporanea del Museo di Capodimonte. Si tratta di un lavoro ad olio su tavola di 55 x 65 cm del 1960 dal titolo “Morte di uno spaventapasseri” esposto in permanenza nella sala dedicata alle Arti a Napoli dal Dopoguerra agli anni Sessanta voluta da Nicola Spinosa.
Da alcuni anni la pittura di Armando De Stefano segue una traiettoria tutta propria, che appare in frattura con gli aspetti più esteriormente fortunati delle mode figurali d’oggi. Segue un percorso non certo solitario, bensì tuttavia sicuramente appunto non implicato in contingenze di gusto, alle quali offrirsi con dedizione eteronoma. Ed è questa non soltanto la condizione della sua pittura attuale: ne è soprattutto il traguardo. Perché De Stefano ha inquadrato questa traiettoria, e la segue dopo anni di esiti diversi, spesso di diversioni repentine, di angolazioni a volte persuase da provvisorie suggestioni (anche se pur sempre, ininterrottamente venendo ad affinare una calibratura d’intervento pittorico di forte qualità).
E la traiettoria lungo la quale è avviato da alcuni anni (e della quale questa stessa mostra è un modo di bilancio) è quella di una pittura evocativa, fondata sulla presenza dell’immagine di dimensione metamorfica di memoria (a volte con impennate oniriche): la presenza dell’immagine umana nel contesto di un ambiente, che con esso fonde le proprie strutture, appunto quasi in un moto metamorfico; e le fonde in una congestione drammatica, quasi asfittica, che intrica l’immagine stessa, secondo un proprio moto di vitalismo riscattato, cupo, fondo, quasi conculcato, in una spazialità vacillante, precaria, e comunque appunto su quell’immagine incombente e fendente.
Del resto lo stesso Armando De Stefano è consapevole del diapason drammatico, cupamente tragico spesso di questo suo mondo, come lo dichiarano le intitolazioni che alludono a temi inquisitori, o comunque sui quali grava un incubo di tirannia e conculcazione. E precisamente, forse, potrà dirsi che la tematica di De Stefano è quella di un’umanità oppressa, e dolorosamente soccombente, oppressa prima ancora che da altri dal proprio stesso peso, fisico, carnale, che il pittore patenta nel vitalismo metaforico, in gravare di corpi al limite della loro estrapolazione o al contrario della loro riconversione nell’intrico del contesto ambientale. Un’umanità che comunque è appunto soccombente, che denuncia la propria caduta, per un male interno, per un peso d’esistenza, prima che per il colpo che le è spesso inferto. Cade, tuttavia raccolta intorno all’onda convulsa del proprio sopravvivente vitalismo; ne vuole drammaticamente testimoniare l’ultima, incoercibile sopravvivenza, il segno forse del raggiunto traguardo d’una desinenza, e tuttavia anche il limite estremo, invalicabile.
È infatti da quel livello che risale il lirismo di questi dipinti di Armando De Stefano, un lirismo che si contrappone appunto al moto tragico della caduta, che lo riscatta quasi, in una sorta di fiducioso abbandono conclusivo, come se quel livello fosse, comunque, il più vitalmente vero e incontestabile: forse per essere quello il livello, sul quale quasi in presentimento vagamente escatologico, si ristabilisce un destino primario di condizione umana, fra inquisitore e vittima, fra tiranno e suddito inerme.
Direi che la cupa e contenuta preziosità cromatica dei dipinti di Armando De Stefano è poi la sede, o meglio lo strumento di quel riscatto lirico, come definitiva liberazione dell’immagine, in metamorfosi, dal peso fisico del suo cadere, anzi del suo decadere, da una metamorfosi più grave e fatale che l’ha intrisa al proprio ambiente. Perché è appunto al colore che in definitiva si affida questo canto sordo, accorato ma fiducioso appunto di un traguardo recessivo sì, ma ultimo, non tracimabile; proprio come alla strutturazione metamorfica s’affida la collocazione tragica del contesto, la definizione di quel diapason del quale si diceva. Una strutturazione che come estroverte appunto in una caduta il contenuto dinamico delle strutturazioni articolate e plurali, quale autentica immagine della nostra realtà nella sua dimensione sociologica che furono tipiche della ricerca di Romagnoni.
Estroverte in caduta, dando a quel dinamismo un esito conclusivo, ma al tempo stesso introverte in una condizione solitaria, che ignora la storia orizzontale della dimensione sociologica, per una storia verticale, di ricorrenze umane fonde e ancestrali, proiettate in un tempo di mitica tragedia, il cui sangue è tuttavia il sangue stesso delle nostre ferite, le cui vittime siamo noi stessi, i cui eroi negativi ci riguardano. Condizione solitaria, d’umanità, dispersa, che ignora persino il dialogo (si figuri, i «mass media»!), che la lotta in una estrema, atemporale sopravvivenza della propria dignità, del proprio corpo, del proprio peso umorale, del proprio primario vitalismo.
Armando De Stefano ha il coraggio di seguire la traiettoria di questa sua problematica, la cui messa a fuoco è appunto l’impegnativo ed alto traguardo raggiunto dalla sua pittura negli ultimi anni. Ne sente tutto il peso e la responsabilità, come questi dipinti stessi mi sembra dimostrino, nel loro autentico offrirci la fatica di immagini autentiche, di una storia umana profondamente radicata, che accetta e paga la propria condizione, che se ne fa coraggiosamente lo strumento di una sopravvivenza, in una fiducia non effimera.
Autentica personalità dell’arte napoletana, Armando De Stefano, nato a Napoli nel 1926, è attore di primo piano in tutti gli avvenimenti artistici della città dal 1947 quando da vita al “Gruppo Sud” insieme a Raffaele Lippi (1911-1982), Renato De Fusco (1929), Vincenzo Montefusco (1926-1975), Guido Tatafiore (1919-1981), Raffaello Causa (1923-1984) e Renato Barisani (1918-2011).
Il “Gruppo Sud” che Ferdinando Bologna giudica “la vera spina dorsale del rinnovamento dell’arte napoletana e la matrice di tutti i più importanti movimenti che seguirono”, comunque non ha lunga vita a causa delle diverse poetiche che gravitano al suo interno: dalle ricerche dei neorealisti, agli astratti geometrici.
Le opere di Armando De Stefano presentano una verità poetica capace di aprirsi all’invenzione, alla fantasia, al sogno, e soprattutto a quella trama di immagini e di richiami culturali che sono il tessuto di ogni opera d’arte.
Il realismo è il suo credo pittorico e niente gli è più congeniale della sua ricerca sul concreto, sul dato di fatto, sia esso quotidiano o storico. Ma la sua opera stenta a collocarsi all’interno della corrente realista, priva com’è di quelle caratteristiche di scuola (il gusto per la denuncia, la tendenza per il manifesto, una certa dose di populismo), che sono distintivi di quella stagione. Armando De Stefano ha sempre lasciato spazio alla sua ricerca formale e alla cura di quei valori figurativi, che per lui sono la base della buona pittura.
Gli anni dal 1956 al 1961 lo vedono impegnato in un’area che per molti aspetti si richiama a quella dell’Espressionismo materico e astratto. In apparenza un vero cambio di rotta senza rinunciare, però, mai all’immagine. Essa non scompare, ma si fa materia, segno, affiora dalle sovrapposizione dei colori o ne resta sommersa, ma in ogni caso è presente.
Dal 1962 Armando De Stefano riscopre il piacere del ritorno alla pittura d’immagini, con quanto di popolare e narrativo essa è capace di esprimere. Siamo alla nascita dei grandi cicli, che dall’Inquisizione a Masaniello alla Rivoluzione napoletana del ’99, hanno impegnato non solo dagli anni Settanta di attività dell’artista, ma i fatti più drammatici e anticipatori della nostra storia: Marat; Masaniello; Odette e il Jolly; Mercato dei miti; Il profeta; Le maschere; Immagini da una rivoluzione, Napoli, 1799; Federico II; L’Eden degli esclusi; Dafne; L’urlo del Sud; Chameleons.