Autore:SORRENTINO VINCENZO
N. - M. :Torre Annunziata, 1956
Tecnica:Olio su tela
Misure:68 x 55 cm
Anno:2018
Classificazione: Figure, Figurativi, Oli, Moderni
“Hypnos, fratello di Thanatos, era figlio di Nyx (la Notte). Noi entriamo ed usciamo continuamente dalla condizione di dormienti grazie ad Hypnos, ovvero il sonno. È lui che stabilisce le nostre ore di abbandono e di riposo. Il fratello, invece, più temibile, è colui che spezza l’alternanza”.
Vincenzo Sorrentino nasce a Torre Annunziata il 18 maggio 1956. La sua formazione artistica avviene presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli dove studia Pittura, laureandosi nel 1981. A partire dal 1986 insegna pittura presso l’Accademia napoletana. Intanto, per un approfondimento dell’opera Threni, conduce studi di filosofia e teologia presso la Facoltà Teologica San Luigi di Napoli. Precoce disegnatore, nel 1977 i suoi disegni vengono apprezzati da Oreste Del Buono e pubblicati su riviste milanesi. L’attività espositiva ha inizio nel 1984 in luoghi istituzionali, gallerie private e presso Istituti di Cultura, connotandosi come un artista neo-barocco. Trasferitosi a Milano nel 2001 istituisce il corso di Teoria e tecnica dell’affresco presso l’Accademia di Brera. In questi anni approfondisce la tecnica dell’affresco attraverso un’analisi dei trattati dell’arte medievali e rinascimentali. Nel 2005 dà vita al progetto Ritter ideato per l’Accademia milanese. Coadiuvato da studenti che frequentano il suo corso realizza un cartone per affresco di otto metri quadrati sottolineando le tecniche del disegno rinascimentale. L’opera, insieme a tre affreschi, verrà esposta al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. In questa occasione gira la video-opera Handriss. È del 2011 il secondo progetto per l’Accademia di Brera in cui elabora e costruisce, con la collaborazione di alcuni allievi, una colonna istoriata, di circa quattro metri, dipinta ad affresco, ispirata al mito di Sol Invictus. L’opera segnalata da Vittorio Sgarbi sarà esposta alla 54ª edizione della Biennale di Venezia e presentata successivamente alla Villa Mascolo di Portici. Nel 2012 fonda Rosso Armeno, una produzione di opere in ceramica e bronzo che spaziano dalle sculture, agli oggetti di uso quotidiano, agli ornamenti e ai complementi di arredo architettonico. La prima collezione di opere è presentata da Philippe Daverio, nella primavera del 2014, nelle sale del Castello di Grumello, sede di eventi culturali promossi dalla proprietaria Cristina Kettliz.
Non è difficile riconoscere nel linguaggio di Sorrentino le ascendenze di una cultura romantica, approfondita nella sua matrice più spirituale e drammatica di origine medievale, la frequentazione di un classicismo innestato nella lezione seicentesca, l’immersione infine in una sintassi simbolista e talora surreale. Sembra essere di fatto il simbolismo il riferimento più proprio della sua pittura, il simbolismo come emergenza di un oltre a cui l’esistenza rimanda, inconosciuto ed inconoscibile, di cui pure si avvertono i segni arcani e misteriosi di cui si alimentano i sogni e le visioni e le angosce dell’eterno e del quotidiano. Un linguaggio comunque filtrato da un denso circolo di cultura, perché si nutre appunto di una metafora allusiva e criptica insieme, di un rimando a ciò che si decifra all’interno stesso della sensibilità e della coscienza. Solo in questo senso l’arte di Sorrentino può dirsi colta, recuperando il significato non solo citazionistico ma spirituale di un passato che si legge nelle profondità della storia, ma anche nelle vertigini dell’inconscio, nella cultura antica e presente dei segni e dei simboli, nella scienza del mito.
Il barocco non esiste come momento della storia ma solo come tappa della storiografia. Non vi possono essere pittori barocchi nei Seicento, ma oggi che la categoria esiste, invece sì. Per Sorrentino oggi il dipingere corrisponde al mantenere viva una lingua, la sua, e di farla evolvere. Oltre Ribera ovviamente, il quale lo stimola come una sorta di parente. Oltre il tubetto del colore, e qui la questione si fa ben più seria perché lui, come altri della sua specie, ha deciso di abbandonare la strada facile della materia fatta per quella da fare. Poiché pensa che l’elaborazione della sua pittura debba partire dall’alchimia degli elementi per evolvere verso l’alchimia dei pensieri. Ne sorge un cosmo fantastico che non compete più con l’armadio delle immagini che la quotidianità impone ma entra in colloquio con i temi nostri sotterranei, quelli che ci accompagnano dal profondo delle ritualità dionisiache fino ai tatuaggi d’oggi.
…una pittura calda, sensuale, corposa, dove il colore investito da una luce sapiente squilla, si fa vibrante per insospettabile vitalità, si accende di imprevedibili bagliori, sino a scoprire quei fondi neri dai quali – proprio alla maniera degli antichi “telieri” – ha preso avvio la rappresentazione. Una tecnica (ma è poi giusta definirla così?) che non è più del nostro tempo, e che pure Sorrentino sente propria per quella amorosa e sofferta confidenza maturata nello studio del Seicento napoletano, da Caravaggio a Ribera. Un esercizio appassionato e devoto, fatto di analisi ma anche di comparazione con le conquiste più felici della moderna figurazione. Sicché gli esiti risultano quanto mai personali, pur nell’innesto sulla grande tradizione seicentista di un nuovo modo di intendere il rapporto spazio-immagine.
Contemplando le tavole del Sorrentino, si ha la subito l’impressione che questo giovane artista ha colto la profondità del messaggio e il contesto profetico delle Lamentazioni. Egli infatti non ha scelto di illustrare un testo, ma ponendosi nella tradizione dei grandi interpreti, ha scelto di attualizzare, cioè di ridire il messaggio del testo biblico con segni propri del linguaggio pittorico, fedele però alla simbolica profetica, escatologica e apocalittica… Il testo delle Lamentazioni posto sotto ogni tavola permette di verificare il messaggio che l’immagine intende trasmettere e insieme aiuta a decodificare l’universo simbolico delle immagini per cogliere nelle varie sequenze quel cammino ermeneutico che autore e lettore fanno insieme. Si realizza così una interazione dal testo all’immagine e dall’immagine al testo… Pur proponendosi una interpretazione del testo biblico delle Lamentazioni le tavole del Sorrentino risultano un’opera a sé, un nuovo testo con una struttura e un messaggio proprio e originale. Questa specificità valorizza ancor più il lavoro e lo pone vicinissimo all’universo simbolico non solo dei profeti Geremia, Ezechiele, e Deuteroisaia, che costituiscono il contesto letterario prossimo alle Lamentazioni, ma anche di tutta la Bibbia e delle espressioni artistiche dell’umanità intera che si interroga ieri oggi e sempre sul senso del dolore, dell’oppressione, della violenza e anela ad un universo di pace.
In questi anni tormentati da crisi economica, vuoti politici e culturali, dalla sfiducia in istituzioni traballanti e sempre meno disposte ad investire nella conoscenza come chiavi del vero sviluppo morale, e quindi economico della società; in questo mondo, quindi, i cui valori morali comunitari che avevano caratterizzato i nostri avi sono travolti dall’individualismo, quando non dall’arrivismo, dal presenzialismo televisivo, dall’arricchimento illecito, sembra incredibile incontrare artisti, o per meglio dire: docenti che, come Vincenzo Sorrentino, si impegnano senza risparmio nel ruolo che con merito si sono guadagnati. Ciò fa onore al maestro Sorrentino, così come onora e rende degna di considerazione ogni persona che svolge la propria attività con passione e personalità. Sorrentino però è un artista sui generis, inattuale nel senso più positivo che possiamo attribuire a questo termine: perché egli non è un pittore nell’accezione comune, ma anche un frescante, ovvero colui che nel nostro tempo, quasi incredibilmente riesce, come pochi altri, a trovare l’energia, l’impegno intellettuale, la capacità tecnica e manuale per recuperare la più antica e nobile tecnica artistica della storia della pittura. Sorrentino riesce a fare tutto questo, a portare l’arte ancora ad un grado di sperimentalismo di grande interesse, grazie allo stretto contatto con i suoi allievi dell’Accademia, potenziali depositari e continuatori di questa preziosa eredità.
In Sorrentino l’unicorno , come anche altri mostri , quali la biblica locusta o i mediterranei ittiosauri e basilischi, ritorna per liberare attese narrative latenti, la sua comparsa, come quella degli altri soggetti simbolici e mitologici, introduce sul reticolo dell’osservazione un dramma, che apre squarci su memorie, terrori, sorprese. Essa costituisce il classico sasso lanciato nel lago: di qua parte una serie di movimenti a cerchi concentrici. Anche nelle opere di Sorrentino, il movimento è per vibrazioni che partono dal centro, secondo però un rapporto dialettico di masse plasticamente e corposamente sentite e osservate. Nei disegni, come sulle tele, il senso della vita è dominante sotto l’aspetto dell’intensità e della pienezza. Dal che scaturiscono una pittura calda e seicentescamente corposa e un disegno avvolgente, sensuosamente morbido e rigoroso insieme, manipolati con una sensibilità artistica umorosamente ricca e nativamente forte.
Mi confessava una volta Vincenzo Sorrentino che ciò che soggiace alla sua visione del mondo e guida in sostanza il suo lavoro è una sorta di sentimento millenaristico, lontanamente analogo a quello dei pittori che a suo tempo dipingevano i Trionfi della Morte forse per esorcizzare la propria angoscia. Ed è a questa luce – a condizione naturalmente di non retrodatare qualcosa che va letto in chiave di assoluta modernità – che io proporrei di considerare le sue tele e il complesso giuoco di significati e di simboli che vi s’instaura. C’è nella sua pittura il senso minaccioso di un’immanenza, anzi come la profezia d’una possibile apocalissi. C’è l’angoscia d’un mondo che oltrepassato il livello di guardia, va verso il franto e l’adulterato ed è al rischio di partorire mostri. C’è il tema dell’ordine sconvolto, della creazione sinistramente insidiata e d’una violenza che sottintende la tecnologia indiscriminata e le odierne megalopoli e contamina la realtà umana e naturale generando forme di regresso, caratterizzate dall’orrore… Per significare tutto ciò Sorrentino procede a un’ardita operazione associando a «citazioni» di grandi e ben riconoscibili pittori del passato, che egli ripropone dal versante dello spettrale e del macabro, invenzioni di gusto ultramoderno latamente ascrivibile all’area del neo o del post-figurativo (tanto per fornire dei sommari riferimenti che non devono far dimenticare l’originalità della sua ricerca), in maniera da rendere il senso del deturparsi delle forme e dell’intimo corrompimento della realtà. Il «racconto» contenuto nel trittico Un pessimo lunedì, con l’aria di discrezione che lo domina e con l’idea sottesa dell’irriducibilità del nostro odierno universo a registri unitari, è in tale direzione da considerarsi esemplare.
Ed è il modo, in altri termini, di chi ha preferito la parte dell’interprete più che quella del testimone, ed quello che dall’inizio della sua attività il giovane Vincenzo Sorrentino ha scelto per sé. Ma : ha scelto oppure ha semplicemente obbedito alla forza visionaria e realistica insieme del suo temperamento? Se non risolve la dicotomia (che poi, a pensarci bene, è soltanto apparente), questa mostra – Threni: Lamentationes Jeremiae prophetae è una splendida conferma della sua singolare e straordinaria presenza nel panorama attuale delle arti figurative; diremo di più: della «necessità» della sua presenza. La rilettura di questo testo biblico (vorremmo azzardarci a scrivere: la reinvenzione del testo biblico, attraverso il mezzo espressivo del segno invece che della parola) è stato da lui affrontato con serietà, una preparazione e al tempo stesso con umiltà, che si riscontrano ormai in pochi artisti contemporanei, piuttosto inclini a seguire, in gran parte, le più seducenti e accattivanti sollecitazioni del mercato, nel migliore dei casi, i più condizionanti gusti di un certo pubblico.
Grandi tele come teatri di guerra, guerra di creature mutanti di volti e di corpi in via di trasformazione, dove la natura umana si contamina con l’animale e il vegetale, dove escrescenze fioriscono sulla terra del mito, dove gesti arrestati e grida silenziose alludono a un leggendario altrove che non si vede, dove i colori lottano sontuosamente per prevalere, e dove l’antico si fa postatomico, ineluttabilmente moderno. E’ la pittura generosa di Vincenzo Sorrentino, più che contemporaneo – quindi transitorio e soggetto alle fragili mode – travalicante e moderno appunto, perché sarà moderno anche nel prossimo secolo, se mai uno ve ne sarà. Le sue rappresentazioni neo-barocche scavalcano il tempo per essere raffigurazioni di un Olimpo cavalleresco dove gli dèi hanno lasciato il posto agli esseri nati dopo le contaminazioni nucleari. Esseri in via di metamorfosi confondono sui corpi generi e sessi avvicinandosi sempre di più alla quiete di un unico e babelico giardino dell’Eden dove tutto sembra destinato a fondersi in proliferazioni fantastiche, la definitiva fioritura del mondo. Raramente ho trovato nella pittura di oggi un tale sapiente uso del colore, e in questa pittura “sorrentiniana” vedo un ponte che può superare l’ultimo secolo per intero per ricominciare una nuova grammatica saldata al valore dell’antico. Non recupero, ma rifondazione.
Il tuffo nel quadro pian piano si disvela come dantesco precipitare in noi stessi: quelle non sono più le “sue visioni” (dell’artista) ma il calligrafico e sorprendente diario illustrato della discesa nel profondo di ognuno di noi. Sorrentino ha assistito ad una particolare formazione di questo profondo, tutto generato dal suo essere vesuviano. L’assorbimento – attraverso il latte materno, i racconti, la visione, la respirazione, la pietrarsa, il mare – della presenza del vulcano hanno nel tempo strutturato in lui come una trama di un viaggio dentro una realtà parallela che ribolle sotto l’apparente calma dei giorni vissuti: il liquido amniotico e il magma infuocato, il bambino e il mostro, l’origine della vita e l’abisso della morte, la memoria e l’oblio, giocano ruoli contraddittoriamente analoghi, entrambi inizio di una fine e fine di un inizio. Tutto ci tira in questo vortice di simboli in cui l’artista, la sua pittura, le dimensioni della tela, i simboli stessi diventano i nostri anch’essi inquietanti ed inspiegati, il nostro viaggio. Riemergere dal quale e riguardare i quadri di Sorrentino dall’esterno è come lasciarsi a malincuore alle spalle le tracce di un confuso tormento, che non prevede la conoscenza ma il senso, carnale e mentale.