Autore:SCUOLA DI POSILLIPO
N. - M. :Napoli, secolo XIX
Tecnica:Olio su tela
Misure:78 x 104 cm
Anno:Sec. XIX
Classificazione: Paesaggi, Oli, Figurativi, Antichi
Con l’appellativo di Scuola di Posillipo, spesso – ed impropriamente – si finisce col definire tutta l’arte napoletana dell’800. Quello della Scuola di Posillipo fu, in realtà, un gruppo di pittori che elaborò una cifra compositiva pittorica ben definita, che nasceva da precise premesse e muoveva verso obiettivi altrettanto definiti. Fu, innanzitutto, una reazione antiaccademica, un tentativo di riappropriazione della capacità di vedere e di osservare dell’artista, contro le pretese aprioristiche ed ideali proprie dell’accademismo e della montante neoclassica. Ma fu quella della Scuola di Posillipo anche una pittura motivata da una committenza intrigante e curiosa, mossa alla ricerca della veduta, ispirata da una visione particolare ed osannante del paesaggismo e del vedutismo coltivato sulle rotte del Grand Tour. Insomma – recuperando il vedutismo settecentesco anche nella versione svolta in loco da taluni illustri Pittori – viaggiatori, ma sviluppato ora in chiave più intima ed emozionata, secondo la scansione di formati minimi e compatibili con le esigenze di trasporto da parte degli acquirenti che intendevano portare, così, via con sé, un pezzo di quei paesaggi di sogno – la Scuola di Posillipo avrebbe inaugurato una felice stagione all’insegna d’una pittura capace di restituire all’artista le sue capacità fabulatrici più proprie, quelle, cioè, di rendere attraverso il filtro della sua interpretazione personale un profilo della verità dei fatti osservata con occhio libero da premesse di tipo manieristico o accademico. Non fu, comunque, questa Scuola, solo paesaggismo: lo dimostrano i Palizzi, ad esempio, ma proprio l’insistenza di questi pittori, che si allontanano dal paesaggismo posillipista su temi talvolta di genere, depriva di mordente e di capacità di denuncia la Scuola. È difficile indicare con puntualità lo svolgimento temporale della Scuola, che si sviluppa intorno alla figura di Anton Sminck Pitloo e troverà in Giacinto Gigante il suo interprete più appassionato. Teodoro Duclère, ma anche i Carelli, lo Smargiassi ed altri parteciparono di quel clima creativo e la data della fine stessa della Scuola, indicata negli anni del decennio dei ’30, in concomitanza con la morte del Pitloo (1837), non appare convincente, dal momento che quell’esperienza creativa sopravvisse ancora a lungo, anche se, man mano, se ne esaurivano le intime ragioni. Appartenenti alla Scuola di Posillipo furono: Anton Sminck Pitloo, Giacinto Gigante, Ercole Gigante, Achille Gigante, Francesco Fergola, Salvatore Fergola, Giovan Giordano Lanza, Antonio Papandrea, Giacomo Micheroux, Guglielmo Giusti, Pasquale De Luca, Augusto Dun, Teodoro Duclère, Beniamino De Francesco, Raffaele Carelli, Gabriele Carelli, Gonsalvo Carelli, Achille Carelli, Giuseppe Carelli, Gabriele Smargiassi, Achille Vianelli, Frans Vervolet, Vincenzo Franceschini, Pasquale Mattei, e altri.
Nella storia dell’Ottocento il capitolo dedicato alla Scuola di Posillipo riveste un significato importante per tutto il progresso dell’arte napoletana, compresa l’arte dei pittori dell’Accademia, perché il “paesaggio ha una larghissima parte nella pittura moderna”, come ebbe a dire Francesco Netti, “quanta non ebbe mai nelle epoche decorse”. Netti è pur consapevole del fatto che tale processo innovativo non deriva da una nuova invenzione del modo di fare paesaggio, perché “noi non abbiamo inventato nulla in arte”, ma non può non affermare come attraverso il paesaggio si sia raggiunta la strada della verità e in definitiva della pittura moderna, offrendo l’opportunità di un cambiamento e di una revisione dei metodi dell’arte anche a tutti coloro che praticavano pittura di storia. La riflessione post quem di Netti, scritta a proposito della presenza degli artisti italiani all’Esposizione universale di Parigi del 1867, cade in un momento storico di acquisizione delle istanze di “libertà” raggiunte dopo l’unificazione nazionale, alle quali si erano consegnati anche i nuovi pittori del verismo storico svincolati dall’impaccio figurativo delle convenzioni della “copia dalla statua” o “dal nudo” di stampo accademico. Una vera e propria battaglia, quella degli artisti di paesaggio, e l’osservazione diretta del dato naturale si propone non solo come un baluardo, seppur non dichiarato, contro l’Accademia, ma anche come l’unico obiettivo possibile da perseguire, assieme a quei principi e ideali di verità che erano diventati, in tempi di sostanziale difficoltà politica, un’insopprimibile esigenza dello spirito. Alle considerazioni di Netti, che percepisce nel valore del paesaggio uno stato di progresso delle arti in genere, si accosta la voce eloquente di Pasquale Villari. Nella stessa circostanza storica (1867) Villari formula con risoluta consapevolezza una concezione molto simile a quella di Netti, esaminando quanto era avvenuto a Napoli nei quattro decenni che avevano preceduto l’Unità d’Italia, ed elabora, in un contesto di rivalutazione europea, la celeberrima opinione sulla Scuola di Posillipo, consacrata a questa denominazione ufficiale proprio a partire da quella data: La bellezza del clima, i paesaggi stupendi che circondano Napoli, e i molti forestieri che ne chiedono sempre qualche ricordo disegnato e dipinto, avevano fatto sorgere un certo numero di artisti i quali, come per disprezzo, erano dagli accademici chiamati della Scuola di Posillipo, dal luogo dove abitavano per essere più vicini ai forestieri. Essi non facevano in origine che copiare vedute, ma gli inglesi hanno generalmente molto gusto per questi lavori, li giudicano e li pagano bene. Fu perciò necessario migliorare, e la Scuola di Posillipo fece infatti progresso, e crebbe di numero. Anche Villari trova un nesso di continuità tra la Scuola di Posillipo e il naturalismo di Filippo Palizzi, e percorre la strada della “riconsiderazione” della pittura di paesaggio in un contesto di raffronto assolutamente sprovincializzato quale quello dell’Esposizione universale di Parigi, per una riflessione più generale sullo stato della pittura moderna in Italia e in Francia dopo il 1860. In tono più appartato, ma partecipe dello stesso registro di contenuti, si aggiunge qualche anno più tardi il contributo critico di Vincenzo Bindi, proiettato a riscoprire in epoca moderna il primato della pittura di paesaggio a Napoli, con un particolare riconoscimento a Pitloo che “aveva migliorato le condizioni di tutti i pittori di quell’epoca” (gli accademici Carta, Marsili, Cammarano, Angelini, Bonolis e altri). Una voce “di provincia”, quella di Bindi che, tuttavia, ha motivo di essere accostata alla critica degli autori precedentemente citati per la comune matrice di una formazione idealistica, coltivata alla scuola di Francesco De Sanctis e, nel caso specifico di Bindi, sostenuta dall’insegnamento di Giuseppe De Blasiis. Nel 1900 anche Domenico Morelli, oramai anziano protagonista di quel periodo storico, nel commemorare Filippo Palizzi, riconferma la linea dei predecessori e il ruolo prioritario e decisivo assunto dalla “famiglia” artistica della Scuola di Posillipo, che aveva dato loro “una spinta alla riforma della pittura fra noi”, sottolineandone la consapevolezza e l’efficacia dei risultati e dei metodi, che si fondavano interamente sullo studio del vero: Essi dipingevano, studiando sempre all’aria aperta: era naturale che censurassero i “figuristi” che dipingevano dal modello, con la luce dello studio, mentre volevano rappresentare scene all’aria aperta.[…] I paesisti ci misero sull’avviso […] la loro critica colpiva nel segno. Per Morelli il movimento dell’arte moderna trae origine dall’arte del paesaggio della metà del secolo xix, che con la Scuola di Posillipo, e in special modo con Gigante a Napoli, “si allargò poi in tutta Italia” seguito, poi, da Filippo Palizzi, considerato il vero riformatore dell’Arte Nuova. Uno stesso percorso viene proposto da Pasquale Lubrano Celentano, che trova una risposta al quesito posto in forma di saggio critico in Esiste un arte moderna in Italia?, nel quale viene sollecitato da parte della critica francese a far fronte a una inerte polemica di natura nazionalistica sul primato dell’arte moderna, mentre egli avverte la necessità di ancorarsi al carisma istituzionale di Morelli, al quale si sente legato sia per formazione ideologica, sia per la volontà di mantenere in vita l’eredità dei valori post-unitari del verismo storico, nei quali aveva creduto: La Scuola di Posillipo, novella scuola di Barbizon, perché, come quella, aveva per base delle sue ricerche il vero, dato il genere di quadretti, di acquerelli e di vedute che producevano gli artisti del cenacolo, ebbe come maggiore rappresentante Giacinto Gigante. A questo punto, per la prima volta, emerge la personalità di Giacinto Gigante, decisamente l’artista trainante del gruppo, “precursore del movimento pittoresco moderno”, stando a un giudizio espresso già all’esposizione biennale del 1903, dove ne era stata organizzata una piccola mostra e ne veniva rievocata la figura d’artista, succeduta alle retrospettive dedicate a Favretto nel 1899 e a Fontanesi nel 1901. Il 1903 segna anche la data d’inizio della fortuna critica di Gigante, in campo nazionale, nel Novecento. Gli acquerelli di Gigante esposti in quella circostanza, tra l’altro, provengono dal Museo di Capodimonte e dalla collezione dei duchi Correale di Terranova, che in quell’anno legarono tutta la loro raccolta alla città di Sorrento.
La Casina Vanvitelliana è un casino di caccia costruito su un isolotto del Lago Fusaro a Bacoli. A partire dal 1752, l’area del Fusaro, all’epoca scarsamente abitata, divenne la riserva di caccia e pesca dei Borbone, che affidarono a Luigi Vanvitelli le prime opere per la trasformazione del luogo. Salito al trono Ferdinando IV, gli interventi furono completati da Carlo Vanvitelli, figlio di Luigi, che nel 1782 realizzò il Casino Reale di Caccia sul lago, a breve distanza dalla riva. L’edificio, noto come Casina Vanvitelliana, fu adibito alla residenza degli ospiti illustri, come Francesco II d’Asburgo-Lorena, che qui soggiornò nel maggio 1819. All’interno dell’edificio furono accolti Gioachino Rossini e, più recentemente, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Dal punto di vista architettonico, la Casina si inserisce tra le più raffinate produzioni settecentesche, con alcuni rimandi alla conformazione della Palazzina di caccia di Stupinigi, progettata alcuni anni prima da Filippo Juvarra facendo ricorso a volumi plastici e ampie vetrate. L’edificio voluto dai Borbone presenta infatti una pianta assai articolata, composta da tre corpi ottagonali che si intersecano l’uno alla sommità dell’altro, restringendosi in una sorta di pagoda, con grandi finestre disposte su due livelli; un lungo pontile in legno collega inoltre la Casina alla sponda del lago.