Autore:CRISCONIO LUIGI
N. - M. :Napoli, 1893 - Portici, 1946
Tecnica:Olio su tavola
Misure:22 x 29,5 cm
Classificazione: Paesaggi, Oli, Antichi, Classici, Figurativi
Luigi Crisconio è un pittore semplice. Perciò è difficile. Perciò al nostro occhio “moderno” può passare quasi inosservato. […] Crisconio è una voce di cui va dato conto, nella pittura dei primi quaranta anni di questo secolo, ed è una voce più forte di altre, più pura e più vera, anche se non fu futurista, metafisico o altro, ma solo un vero pittore, legato agli uomini che conosceva, alla terra, alle cose, al paesaggio che conosceva.
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Luigi Crisconio è nato a Napoli nel 1893 e morto a Portici nel 1946. La sua formazione artistica è autonoma rispetto alle scuole pittoriche dell’ultimo Ottocento, in un ambito di modernità sulle esperienze attuali della pittura europea, dagli impressionisti a Pablo Picasso. Iniziò giovanissimo la vita artistica e fu circondato sempre dall’incomprensione e dall’ostilità, ma non si scoraggiò mai. Egli si autodefiniva “operaio della pittura”. Dal 1920 espose in numerose mostre personali e alle Biennali veneziane; alla Quadriennale romana del 194.8 figuravano: “La montagna di Camaldoli”, “Casa Rossa”, Nudo”, “Testa di bimbo”, “L’estate”, “Il pastore”, “Bagnante alla Marina Piccola”, “Marina di Meta”. Nel gennaio del 1958 la Galleria Bissolati di Roma gli allestiva una postuma.
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La grande personalità di Luigi Crisconio abbraccia un arco assai ampio nella storia delle arti figurative del Mezzogiorno. Egli è, di fatto, il protagonista della pittura napoletana, dal 1920 al 1946, epoca in cui a solo 54 anni, improvvisamente morì. Crisconio apparve sulla scena artistica nel momento più sordo e chiuso dell’arte napoletana: il momento degli Irolli, dei tardi morelliani, dei vuoti ed insignificanti manipolatori di scenette di genere e veristiche di fine secolo. Egli, insieme a Eugenio Viti, rappresenta il rinnovamento dell’arte napoletana conferendogli un’accelerazione imprevista, determinandone lo scatto risolutore. Era un pittore semplice, senza complessi intellettualistici, il quale come tutti i pittori autentici sentiva soltanto la necessità, quasi fisiologica di dipingere, di immergersi nelle cose e di trasfigurarle nella furia dei sensi eccitati e della fantasia. La Napoli dei rioni poveri gli piaceva dal punto di vista esclusivamente pittorico, nelle tonalità dei rossi spenti dei vecchi intonachi, nei contrasti di luci ed ombre di origine secentesca, in quelle atmosfere tragiche che meglio si confacevano ai suoi umori e alla sua tavolozza. Certo, i suoi umori non erano sempre buoni: e molti quadri sono come capitoli della sua autobiografia, la storia delle sue peregrinazioni spirituali e sentimentali, ove si ritrova sempre “lui” con la sua implacabile sensualità, con le sue tormentose inquietudini, con i suoi amletici dubbi e il suo istinto infallibile di pittore nato. Un artista simile, così genuino, così individualista, refrattario alle pause meditative e intellettualistiche, non poteva farsi influenzare dal clima della pittura contemporanea. Autobiografico sempre, anche nei paesaggi, anche nelle nature morte. I suoi cupi autoritratti, tutti intonati sui neri sono capitoli di un’autobiografia intima, spietata, che uno scrittore potrebbe tradurre in tanti capitoli di un romanzo. I soggetti dei suoi dipinti erano per lui soprattutto “pittura”: un rapporto di forma e di volume, giustezza del tono, preziosità della materia, unità di visione. Tutto il resto non lo interessava. Non molti artisti hanno prodotto tanti dipinti quanto Crisconio Luigi: la pittura era la sua dolce dannazione, nonostante l’indifferenza dell’ufficialità, nonostante anche lo sfruttamento di cui era fatto oggetto da parte di mercanti senza scrupoli. Nel gesto pittorico egli trovava pace alle sue inquietudini, lenimento alle sue amarezze. Crisconio aveva avvertito la lezione del Seicento napoletano, ma, soprattutto, intese la portata della lezione di Cézanne: la costruzione della forma mediante il colore doveva infatti costituire il fondamento del suo linguaggio, la precisa risposta alla sua irrinunciabile esigenza di consegnare all’immagine una durata. Fin dall’inizio il suo istinto lo guidò sulla strada opposta alla faciloneria orientandolo su di un rigore formale ed una originalità contenutistica. Nelle opere del suo esordio, prima ancora di iscriversi ai corsi dell’accademia, sono già evidenti la solidità volumetrica e la fermezza tonale che lo caratterizzerà in seguito. Egli dipingeva volentieri ritratti di amici, parenti o clienti della cartoleria che il padre aveva in Piazza della Borsa a Napoli, in cui Crisconio si sentiva prigioniero essendo costretto dal genitore a dargli un aiuto. L’Accademia che in seguito frequentò senza eccessivo entusiasmo come allievo del Cammarano, ebbe tuttavia una certa influenza sulla sua produzione giovanile. Respinto alla Biennale di Venezia, ignorato dalla critica ufficiale, Crisconio ebbe diverse crisi di sfiducia e di sconforto che superò rinunziando ai giudizi dei critici e agli inviti delle esposizioni ufficiali irridendo spesso questi avvenimenti. Crisconio viveva con la madre che caduta quasi in miseria, malediceva il figlio e “la sporca arte della pittura”. Dopo la morte del padre Crisconio aveva mandato alla malora il commercio e questo era per lui fonte d’amarezza che si portava dentro, più per il dolore della madre che per lui stesso. La sua pittura tumultuosa dove i colori erano buttati con violenza sulla tela, era una pittura impossibile per il mercato napoletano di allora e i ricchi collezionisti lo ignoravano così com’era ignorato dagli organizzatori delle grandi mostre. Crisconio venne ad abitare a Portici in una casa che affacciava sul mare, verso il Granatello, luogo che divenne uno dei motivi ricorrenti nella sua produzione. Dopo alterne vicende artistiche le quali non cambiarono la vita economica dell’artista, Crisconio nel 1936 sposa Elisa, la sua modella esclusiva sin dal 1927. Andarono ad abitare a Portici e la coabitazione con la madre dell’artista fu catastrofica e difficile. Iniziarono allora le continue peregrinazioni a Capri, Sorrento, Amalfi, in Sicilia, in Puglia e a Venezia. Durante la guerra si stabilì a Meta di Sorrento, dove dipinse la serie dei Cortili e dei Bambini figli dei pescatori poveri del luogo. Dopo la guerra tornò a Portici, dove, improvvisamente morì, il 28 gennaio del 1946. Una perdita immatura e dolorosa se si pensi che, nel mutato clima socio-culturale inveratosi col dopoguerra, la sua opera avrebbe potuto finalmente godere di una compiuta rivalutazione critica, atta a stabilire, come scrisse Renato Guttuso, che “Luigi Crisconio è una voce di cui va dato conto nella pittura dei primi quarant’anni di questo secolo, e che è una voce più forte di altre, più pura e più vera, anche se non futurista o metafisico o altro, ma solo un vero pittore, legato agli uomini che conosceva, alla terra, alle cose, al paesaggio che conosceva”.
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Negli anni ’30 e ’40 frequentava la Penisola sorrentina un pittore di ritratti e di paesaggi dall’aspetto bohémien, originale, piuttosto schivo e un po’ rude nei modi. Poche persone ultraottantenni lo ricordano, altri, un po’ meno anziani, hanno sentito raccontare aneddoti su questo personaggio da familiari o da amici e anch’io sono tra questi. Ha sempre colpito la mia fantasia di adolescente e suscitava in me viva emozione, entrando nella casa di famiglia, un’intera parete tappezzata di quadri di varia dimensione, quasi tutti di media grandezza, raffiguranti, con colori scuri e pastosi, nature morte, paesaggi appena schizzati con tratto indefinito e, predominante su tutti, l’autoritratto del pittore, che, con occhi penetranti e sguardo severo, fissa lo spettatore. In un’altra stanza un ritratto di anziana signora, Margherita Cappiello, che, in posa accanto ad una consolle, esprime serenità e la soddisfazione di essere immortalata sulla tela. L’autore di tante pregevoli opere è Luigi Crisconio, pittore napoletano, ma metese di adozione per molti mesi all’anno, soprattutto nel periodo bellico. Produttore instancabile di tele di ogni dimensione, dipingeva freneticamente durante il giorno e a volte anche di notte, per rispondere a un suo profondo impulso creativo, ma anche per provvedere al suo sostentamento, che non era sempre scontato, nel rispetto della migliore tradizione per gli artisti che non vengono adeguatamente valutati in vita. A questo proposito si racconta che un gruppo di professionisti metesi e sorrentini incoraggiavano la sua produzione acquistando e commissionandogli tele che l’artista eseguiva per lo più nei generi che privilegiava. Erano Luigi Cappiello, Antonino laccarino, Manlio Longobardi, Vittorio Trapani, Raffaele De Martino, Gios Astarita, Raffaele Guida, Salvatore Cacace, Mariano Moresca, i fratelli Cafiero ed altri, tra Meta e Piano, i mecenati di Crisconio, che con la sua cassetta di colori era sempre in giro per le strade, nei giardini, nei cortiletti delle tipiche case metesi, in cerca dei suoi modelli. I temi preferiti e più ricorrenti della sua produzione in penisola sono ritratti di amici, figure femminili riprese di fronte o di profilo, barche nei porticcioli, marine, scolaretti compostamente seduti, ma anche scugnizzi e figli di pescatori, bevitori nelle taverne, artigiani nella loro bottega, nature morte con pesci o frutta, scorci di stradine sotto il sole o in un giorno d’inverno, angoli di aranceti, sagrestie, carrozzelle, carretti. A Sorrento era diventato suo fisso accompagnatore il giovanissimo Domenico Fiorentino, oggi affermato pittore ottantacinquenne. L’incontro con Luigi Crisconio fu casuale e Mimì, che aveva solo diciassette anni, cominciò a seguirlo passo passo nelle stradine e nelle campagne sorrentine, dove sostavano scegliendo angoli e scorci suggestivi, che spesso dipingevano insieme. Fiorentino, con un sorriso e tanta nostalgia, ricorda lucidamente di aver frequentato Crisconio dal luglio 1939 fino al 1946. Il pittore napoletano a Sorrento era ospite della pensione Zì Teresa, nel quartiere di Marano, e il giovane Domenico, che abitava lì accanto, lo conobbe frequentando la famiglia Galano che gestiva il piccolo albergo. Questo occupava in quegli anni un suolo del fondo Rubinacci, dove oggi c’è Viale Nizza (uno dei ritratti di Crisconio rappresenta Bebè Rubinacci, evidentemente conosciuto sul posto). Sul soggiorno di Luigi Crisconio alla Zì Teresa circola un gustoso aneddoto: pare che il pittore si allontanò dalla pensione senza preavviso, lasciando lì una cassa piena di tele e tavolette dipinte. Non essendosi fatto più vivo, la padrona usava i quadri come ventagli per alimentare il fuoco e, quando le tavole erano irrimediabilmente annerite, finivano bruciate. È facile immaginare lo stupore e la rabbia della signora Galano quando un mercante d’arte di passaggio le disse che quelle tele avevano un discreto valore, ormai andato in fumo. A Sorrento i luoghi preferiti per dipingere erano il borgo di Marina Grande, i ruderi del convento di S. Renato, la strada che costeggia il museo Correale nell’angolo prospiciente il mare. Spesso Crisconio e Fiorentino si fermavano nel chiostro di S. Francesco, dove incontravano il professore Roberto Pane, all’epoca preside dell’Istituto d’Arte; poi giravano per i paesi limitrofi, specialmente a Meta, dove Crisconio trovava molti spunti creativi. Domenico Fiorentino parla con entusiasmo di quel periodo, in cui era avido di apprendere nuove tecniche, e mostra orgoglioso la cartolina che il pittore gli inviò da Sant’Angelo dei Lombardi, nel settembre del 1942, per chiedergli informazioni su un alloggio che voleva prendere in fitto a Sorrento in Piazza Tasso. L’artista lo incitava sempre ad esercitarsi nel disegno dal vero, e la copia a carboncino di una testa di Bruto fu un lavoro molto apprezzato da Crisconio, che vi apportò qualche modifica di propria mano, controfirmando il disegno custodito con cura da Fiorentino. Ma cerchiamo di sapere qualcosa in più su Luigi Crisconio, pittore stravagante che aveva scelto la penisola come una delle mete preferite per le sue scorribande artistiche, oltre a Capri, Ischia, Positano, Amalfi, Ravello e in estate l’Irpinia. Era nato a Napoli il 25 agosto 1893 da una famiglia borghese. Suo padre Francesco gestiva, nella centrale Piazza della Borsa allora appena inaugurata, un negozio di cartoleria dove il giovane Luigi, già allievo dell’Accademia, si sentiva prigioniero e passava lunghe ore dipingendo furiosamente ogni persona o cosa che gli capitava a tiro. A 18 anni rimase orfano di padre e, insieme alla madre Anna Calise, originaria di Seiano, divenne titolare del negozio. Tra i due vi furono continui conflitti nella gestione della cartoleria, che ben presto fu chiusa per la profonda insofferenza del giovane Luigi che voleva solo dipingere e si ribellava agli stereotipi onorevoli e borghesi che la madre sognava per lui. In più, le amicizie della signora Anna (come Vincenzo Serpone, pittore e attore noto all’epoca negli ambienti artistici cittadini) avrebbero dovuto introdurre il figlio nei salotti della Napoli bene. Lì sarebbe stato un rispettato professore di pittura e un ritrattista alla moda, con lo studio pieno di velluti, tappeti e altre cianfrusaglie esotiche che D’Annunzio aveva lanciato nello stile dell’arredamento. Le idee di Luigi Crisconio erano però diametralmente opposte a quelle della madre e rigettavano ogni regola di apparenza e convenzioni borghesi, al punto che gli scontri con la signora Anna furono violenti ed insanabili fino alla morte. L’artista con i baffoni neri, il naso adunco, l’occhio di fuoco dallo sguardo penetrante, le grosse scarpe sempre infangate, il cappello calato sugli occhi, l’andatura guardinga e un po’ felina era anticonformista, ironico, insofferente dei difetti della società in cui viveva, anelante alla libertà e all’indipendenza. Aveva accettato un po’ a malincuore di iscriversi ai corsi di pittura dell’Istituto di Belle Arti e, nonostante la sua scarsa considerazione per la pittura ufficiale, nutrì una grande ammirazione per il vecchio pittore Michele Cammarano, forse anche perché questi era estraneo al giro governativo della pittura italiana e poco considerato dalla critica ufficiale. Quando Crisconio, ormai diplomato all’Accademia, presentò un nudo alla Biennale di Venezia, il suo lavoro fu respinto e per molte settimane questa cocente delusione gli impedì di lavorare, provocandogli una violenta crisi di nervi che lo spinse a distruggere il dipinto incriminato. Non si dimentichi, però, che anche una raccolta di opere di Cézanne (28 per l’esattezza), presentata nel 1920 all’esposizione veneziana, era stata ignorata dalla critica italiana. Dopo quell’esperienza, Crisconio finì per non dare più importanza al responso delle giurie o agli inviti alle esposizioni, così importanti per altri pittori, assumendo nei riguardi di queste competizioni un atteggiamento di ironia e distacco. Ma perché Crisconio Luigi non trovava nell’ambiente artistico-culturale del suo tempo la valutazione che pienamente gli era dovuta? E non parliamo solo di Roma, Milano o Venezia, ma di Napoli, città in cui nacque e lavorò tutta la vita. Paolo Ricci, nel 1964, così scrive: «Generalmente l’atteggiamento di diffidenza, spesso venato di ironia, verso l’opera crisconiana nasce da un curioso complesso di superiorità, di tipo avanguardistico e provinciale, comune, ai giorni d’oggi, alla maggior parte della critica ufficiale, e al personale propagandistico del mercato d’arte. Com’è noto, questa critica considera semplicemente inesistente ogni espressione d’arte non rispondente ai canoni estetici del prodotto mercantile alla moda». Inoltre, aggiunge lo stesso critico, «in quel momento storico, in cui i valori estetici sono condizionati e falsati dalle esigenze del mercato, possiamo comprendere meglio perché Crisconio, artista che non propone soluzioni figurative stravaganti, essendo anzi legato alla figuratività più schietta, rispettando scrupolosamente la visione del reale quale si è configurata da Caravaggio a Cézanne e Picasso, diventa un artista di rottura e anticonformista. Crisconio è solo un pittore autentico, sincero, appassionato, costantemente impegnato nel senso di un’alta coscienza morale e civile, lontano da ogni forma di accademismo e di maniera. Egli tende alla costruzione dell’oggetto aderendo alla tradizione secentista meridionale, a Micco Spadaro. Non si può negare l’influenza che sulle sue opere giovanili ebbero la scuola di Posillipo e quella Porticese, ma Crisconio preferiva istintivamente l’aperta, inquieta e libera ricerca realistica». Lo stesso Ricci, nel suo saggio, osserva che per analoghi motivi la cultura ufficiale italiana per decenni ha rifiutato Raffaele Viviani e il suo teatro. I rappresentanti della pseudocultura fascista, infatti, furono incapaci di cogliere il sapore acre e pungente del realismo vivianesco, così come non compresero il linguaggio popolare di Crisconio, che usciva fuori dagli schemi convenzionali e folkloristici delle scuole regionali. Entrambi gli artisti, rimanendo fedeli alla realtà umana di Napoli, nella coscienza della universalità di quelle condizioni di vita, crearono opere singolari con un forte potere di rottura. Ma torniamo agli estimatori autentici di Crisconio. A Napoli un gruppo di intellettuali si riuniva abitualmente al Caffè Gambrinus intorno a Paolo Ricci e un giorno qualcuno raccontò di un pittore sconosciuto che aveva allestito una mostra in alcuni scantinati della Via dei Mille. Si era nel 1926, i gusti pittorici erano tutti presi da Cézanne e Picasso e grande era lo scetticismo per la pittura locale. Alcuni, incuriositi, decisero di andare a vedere l’esposizione e furono colpiti dalla forza ed originalità di quei dipinti dai toni un po cupi, in cui la rappresentazione dei dati reali seguiva una precisa impostazione volumetrica. Le pennellate brevi, corpose, verticali, costruivano l’immagine con energia e potenza chiaroscurale, esaltando trionfalmente il colore. La tavolozza di Crisconio Luigi variava tra le terre, i bruni intensi, i neri e gli azzurri cupi e profondi. Sua modella esclusiva dal 1927 fu Elisa, i cui nudi espressivi egli dipingeva “illegalmente”, in quanto la relazione era osteggiata dalla madre e da alcuni amici che si erano proposti un’azione moralizzatrice nei riguardi dell’artista. Ma dopo duri scontri con la madre, il pittore nel 1936 sposò Elisa Amato, con la quale andò ad abitare a Portici, dove la signora Anna già risiedeva. A causa della difficile coabitazione si fecero più frequenti i soggiorni in Irpinia (a Sant’Angelo dei Lombardi, specie in estate), poi in Sicilia, a Venezia e soprattutto in Penisola sorrentina (anche se prediligeva Meta, non disdegnava puntate a Capri, Amalfi, Ravello e Positano). E qui senza sosta dipingeva paesaggi e faceva ritratti di notevole qualità ai suoi amici che erano con lui sempre prodighi di ospitalità. In Penisola i seguaci di Crisconio erano soprannominati “i pagani”, in riferimento alla loro laicità e alle simpatie per i temi sociali e politici “di sinistra”, li si poteva vedere spesso intrattenersi nello storico Caffè Marianiello, in Piazza Cota a Piano di Sorrento. I quadri, che alcune famiglie metesi e sorrentine conservano con cura, trattano i temi più ricorrenti di Crisconio, quelli familiari e affettivi, quelli di protesta e di denunzia. Elisa è colta in ogni atteggiamento, scrutata, analizzata, a volte con rabbia, a volte con classica serenità, che raramente l’animo inquieto di Crisconio raggiungeva. Poi ci sono i ritratti degli amici, dei bambini del popolo, degli artigiani al lavoro (un fabbro in particolare suscita la sua ammirazione), le vedute, le carrette coi cavalli che scalpitano, le nature morte in cui frequentemente compaiono pesci; quasi sempre è presente un suo autoritratto con gli occhi vivaci e fulminanti. I colori: giallo acceso, rosso bronzeo, toni brillanti che si fondono nel sole, usati con un linguaggio pittorico liberissimo, impetuoso, sapiente, proprio dell’uomo sanguigno, tormentato, alla continua ricerca di un equilibrio interiore ed estetico. La produzione napoletana e porticese denuncia la sua costante ricerca e sensibilità per i temi sociali: lo studio dove Crisconio Luigi lavorava a Napoli aveva un balcone che affacciava su una fabbrica di tabacchi, in una traversa del Rettifilo. Era la Napoli “interna”, definita da Matilde Serao “la città dietro il paravento del Risanamento”. Infatti la facciata squallida di quella fabbrica fa da sfondo a molte figure dipinte dal 1924 al 1934, anno in cui lasciò Napoli per Portici. Qui abitò una casa che affacciava sul mare, verso il Granatello, luogo che divenne uno dei motivi ricorrenti nella sua produzione. Purtroppo la sua pittura tumultuosa, dove i colori erano buttati con violenza sulla tela, era un genere impossibile per il mercato napoletano di allora e le sue opere trovavano amatori per lo più nella media borghesia, a cui le cedeva a poco prezzo. Spesso Crisconio si lamentava di non avere abbastanza tempo per dedicarsi alla sua pittura preferita, quella tumultuosa, in cui trovava pace alle sue inquietudini e tregua alle sue amarezze, perché obbligato alla produzione di scene di genere che non rispondevano alla sua natura, ma erano più commerciabili. Sebbene ufficialmente non sia stato considerato tale, Luigi Crisconio fu protagonista assoluto della pittura napoletana dal 1920 al 1946, quando a soli 54 anni improvvisamente morì a Portici, per congestione cerebrale. Era il 27 gennaio e scompariva dalla scena napoletana un artista significativo che purtroppo ebbe una vita difficile; aveva sempre seguito la sua ispirazione, ma spesso la malediceva perché gli aveva complicato l’esistenza e alienato l’affetto della madre, che lo accusava di aver ridotto la famiglia alla povertà. Dopo la morte ricevette da parte della critica quell’attenzione che non aveva ricevuto in vita. Seguì un altro periodo di oblio, ma negli ultimi decenni del Novecento fu rivalutato e considerato da alcuni come il più grande pittore napoletano del XX secolo. Su uno dei siti Internet dedicati a Luigi Crisconio si legge che nel 1926 tenne la sua prima mostra personale a Milano, a cui ne seguirono altre in diverse città. Nel 1946 se ne contano parecchie a Napoli, ma la più importante e ricca fu certamente quella del 1964, voluta dalla Società Promotrice di Belle Arti “Salvator Rosa”, dove furono esposte ben 221 opere, dalle prime esperienze agli ultimi anni.