Autore:VITAGLIANO SALVATORE
N. - M. :San Martino Valle Caudina, 1950
Tecnica:Tecnica mista su tela
Misure:30 x 40 cm
Anno:dopo il 2000
Classificazione: Figure, Nature morte, Altre Tecniche, Figurativi, Moderni
Salvatore Vitagliano nasce a San Martino Valle Caudina nel 1950, all’età di sette anni si trasferisce con la famiglia a Napoli. Dopo aver conseguito il diploma dell’Istituto d’Arte, si iscrive al corso di Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. Le esperienze pittoriche maturate in questi anni rivelano, pur nelle asprezze della sua giovanile età, una personalità già definita. Vitagliano, in possesso di mezzi espressivi eccezionalmente rigorosi e stilisticamente validi, dà forma ad una pittura che si muove tra il realismo critico e la visionarietà metafisica e surreale, in cui “i simboli che egli adopera non sono mai mutati dall’occasionalità formalistica, ma sono come calati nella storia e nel sangue della gente che ci circonda e che vive ossessionata dai dubbi e dai problemi della società” (Paolo Ricci).
Incline alla riservatezza e alla solitudine, ma nello stesso tempo attento a tutto ciò che avviene nel campo dell’arte, l’artista, lungo tutto l’arco degli anni Settanta, partecipa attivamente a molte delle iniziative che hanno caratterizzato il vivace clima artistico napoletano di quegli anni. Per Salvatore Vitagliano l’esperienza è il dato fondamentale della conoscenza attraverso la quale è possibile giungere a cogliere il segreto più intimo e recondito della vita e partecipare di quello spirito profondo che anima tutte le cose del mondo. Il decennio cadenzato da alcune mostre personali e collettive, che suscitano l’interesse dei critici e del pubblico si chiude con una personale alla Galleria Lo Spazio nel 1978. Tra le varie opere esposte la Dafne, dal volto senza lineamenti e costellata di ciuffi d’erba e fronde leggere, assume un valore emblematico dell’intero percorso artistico di Salvatore Vitagliano, fino alle più recenti esperienze, nel quale la metamorfosi è simbolo e metafora visiva di un modo di intendere la vita ed i suoi profondi processi di trasformazione. In questo senso assumono valore e significato i riferimenti culturali, sia antichi che contemporanei, intesi dall’artista come recupero di tracce di una presenza umana, che di volta in volta riemergono, quali segnali di una totalità in cui passato e presente, antico e moderno, l’uno e il molteplice si fondono in un unicum eterno.
La consapevolezza dell’appartenenza al tutto porta l’artista, a partire dagli anni Ottanta, a realizzare una serie di esperienze artistiche diversificate che hanno come comune denominatore la ricerca di un’espressività volta. “verso il superamento degli aggressivi e laceranti sentimenti individualistici ed aperta su un orizzonte in cui il sentimento della nostra esistenza s’accordi armoniosamente con quello della vita universale” (Vitaliano Corbi).
Dalle tele in cui prevale l’azzurro in tutte le sfumature all’Uovo alla Casa di montagna all’Api-tigre, opera in bronzo e materiali di recupero che reca in sé la memoria della scultura egizia del Bue Apis di Benevento, è una costante e decisa ricerca da parte dell’artista di percepire e fermare il sentimento profondo della materia al di là della sua forma apparente e visibile. Sempre più per Salvatore Vitagliano la pratica artistica, che passa anche attraverso la manipolazione della materia (sia essa creta, legno o qualsiasi materia che occasionalmente gli si presenta), è vissuta come rito, “procedimento iniziatico, cerimonia che affonda le sue radici in una cultura arcaica, dove il fantastico si cela tra le pieghe del reale, dove ciò che appare lascia intuire l’esistenza di mondi complessi e nascosti” (Giuliana Videtta).
Nell’installazione che vede trasformare un pavimento ricoperto di das e rivestito di foglie d’oro a simboleggiare il mare o in quella che trasforma una stanza in una sorta di cattedrale dai vetri dipinti e dal pavimento ricoperto di terra con al centro un cerchio di pietre, appare evidente il senso di una spiritualità che da latente assume caratteri sempre più chiari ed evidenti. L’arte, in tutte le sue manifestazioni, dalla pittura alla musica al teatro, per il quale Vitagliano elabora alcuni interventi artistici insieme con Antonio Neiwiller e Mario Martone, è l’incontro con fl divino, in cui si annulla il perenne conflitto degli opposti, vita-morte, bello-brutto, vero-falso, per dar vita ad una realtà altra permeata di una bellezza pura, essenziale ed assoluta, nella quale l’uno e il molteplice si identificano. Nell’Icona mistica, assemblaggio di circa quattrocento piccole tele dipinte, emblemi inventati, simboli riconoscibili e momenti di pura pittura campeggiano attorno ad un centro ideale, costituito dal volto di “Zao”, entità esoterica, imperturbabile e perciò inquietante, alter ego dell’artista. “Ho voluto creare – dichiara l’artista in una sua intervista – un’immagine mistica raffigurante tutti i sincretismi religiosi”.
Il misticismo di Salvatore Vitagliano passa attraverso la via della meditazione, divenuta per lui scelta esistenziale, un modo di essere nel mondo, un atteggiamento che lo vede testimone e partecipe del divenire delle cose e della vita. I ritratti, un tema da sempre caro all’artista e che ritorna frequente nell’ultima produzione, sono un riflesso di questo suo modo di essere. Involucri che prendono forma dall’anima in essi celata e che l’artista, facendo appello alla sua ormai provata esperienza e alla sua naturale capacità di “sentire” oltre il silenzio, cerca di portare alla luce. Più che mai in queste opere si manifesta in tutta la sua purezza quel sentimento di bellezza, che fuori dai comuni canoni estetici, è espressione vera e compiuta dell’assoluto capace di dar vita ad una materia “altrimenti opaca”.
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L’approccio di Salvatore Vitagliano alla pittura risale agli anni 60 ed ha viaggiato sempre di pari passo con l’interesse per il mondo antico. I primi anni 70 lo vedono partecipe del Gruppo archeologico napoletano; contemporaneamente si lascia trascinare nella partecipazione alle più note rassegne d’arte di quel periodo. Nel 79 ha un periodo di lunga riflessione che lo porta ad isolarsi dal circuito cittadino e a considerare l’arte come un’unità inscindibile dal tutto. Sono di quegli anni alcuni dipinti di straordinaria fattura e del tutto innovativi, e una serie di installazioni “nella terra di nessuno”: mostre senza inaugurazione, dove il fruitore è colui che di esse si accorge, il passante per caso, gli animali del bosco, il perplesso boscaiolo, o qualche raro quanto inatteso visitatore. Seguono i primi libri in copia unica e un film mai girato. Verso la metà degli anni 90 gli si avvicina il mondo del teatro cittadino, e presta quindi la sua opera ad alcuni lavori di Neiwiller, Uteka, Martone, Berardinis, Cantalupo. Dal 90 al 96 riapre la valigia degli antichi trascorsi archeologici ritornando costantemente alle arti applicate, ma ridando però ad esse per sapienza personalità e inventiva, la dignità di sculture. In questi anni cambia il nome in Zao. Nel 1996 è chiamato all’insegnamento nell’Accademia partenopea e successivamente al Suor Orsola Benincasa a Napoli. Nel 2000 considerata esaurita l’esperienza didattica, ritorna al suo lavoro di sempre che nulla “sembra”, e tutto abbraccia.
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Salvatore Vitagliano, con Perez, Cajati, e Luca (Luigi Castellano) e non esclusa la lezione di Lipari, fu e resta tutt’oggi reale protagonista della scena dell’arte a Napoli degli ultimi 25 anni, segnandone (ognuno nella sua diversità), le 4 fondamentali direttrici; di quell’arte nata a Napoli, ma proiettata al di fuori dello schema di tradizione e di quello d’importazione di tipo Ameliano e che, come nel suo caso, si affaccia autonomamente oltre le cime delle più ardite vette delle avanguardie europee.
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