Autore:ASTURI ANTONIO
N. - M. :Vico Equense, 1904 - 1986
Tecnica:Tempera grassa su cartone
Misure:50 x 35 cm
Classificazione: Paesaggi, Altre Tecniche, Figurativi, Classici
ASTURI ANTONIO nato a Vico Equense il 2 novembre 1904 e morto a Vico Equense il 3 gennaio 1986. Antonio, figlio di Gregorio ed Anna Albano, rimase presto orfano del padre all’età di dieci anni, primo di quattro figli : un fratello, Francesco, e due sorelle, Stella e Maria. Frequentò le scuole elementari assieme al suo coetaneo Giuseppe De Simone, al secolo don Pinuzzo, che tanta parte ha avuto nella sua vita, tanto d’aver curato due sue monografie. Le serie difficoltà della famiglia non gli consentirono di frequentare scuole superiori, ma coltivò la sua passione per la pittura con ogni mezzo, utilizzando qualsiasi materiale per rappresentare quello che colpiva la sua vista; fu così che il conte Girolamo Giusso, passeggiando per le straduzze di Vico Equense, lo notò ritrarre con molta bravura gli scorci di paesaggio e decise di aiutarlo, fornendogli la sua prima scatola di colori ed aiutandolo frequentemente nelle sue necessità. Morto il padre, le difficoltà aumentarono per tutta la famiglia ed Antonio sentì il peso di primogenito. Il richiamo del sangue paterno lo spinse subito alla ricerca delle sue origini, ricordando quelle poche cose che conosceva di suo padre Gregorio, giovane finanziere che in servizio alla Caserma della Guardia di Finanza di Vico Equense, s’innamorò e sposò Anna Albano con tutte le sue difficoltà di ragazza, priva già in giovane età di una gamba e costretta a curare la famiglia e viaggiare con le grucce. Così Antonio, ancora ragazzo, partì alla volta di Crotone, paese natio di Gregorio, e là ricostruì buona parte delle sue origini, sapendo che sua nonna Anna Asturi aveva avuto tre figli, di cui Gregorio era l’ultimo, dal signore del castello di Crotone, tale Francesco Morelli. Antonio ritornò spesso a Crotone , poiché amava tutto ciò che gli apparteneva, comprese queste lontane origini. Giovanissimo, con tutte le difficoltà della vita, decise di seguire le orme paterne, arruolandosi nella Regia Guardia di Finanza, i cui primi addestramenti ricevette a Maddaloni; seguì poi la prima carriera militare a Trieste, dove giunse con tanta voglia di fare, ma soprattutto di farsi conoscere per quello ch’era, un artista. Incominciò ad affrescare di murales le mura di Trieste, lasciando tutti meravigliati della sua bravura, tanto da essere considerato ed apprezzato nei migliori salotti di Trieste, dove ritraeva personalità civili e militari, lasciando opere anche al Museo di Trento. Fu a Trieste negli anni ’20 che il dr. Ernesto Guerrieri, alto funzionario della capitale e Commissario al Consorzio dei Comuni Trentini, conobbe Antonio Asturi, ricordando questo giovane che veniva da Vico Equense, dove Lui soggiornava ogni anno in una casetta alla frazione di Montechiaro. Il dr. Guerrieri lo convocò subito al Ministero dei Beni Demaniali, e lo convinse a congedarsi subito dalla Regia Guardia di Finanza, perché si sarebbe preso Lui cura del giovane. Antonio lasciò l’arma con molta tristezza, ma quell’occasione era unica, poiché Antonio viveva in casa Guerrieri come uno di famiglia, dividendo con i suoi figli il letto ed i sostegni giornalieri. In casa Guerrieri lavorava producendo benissimo, mentre il Dr. Guerrieri organizzava per Lui mostre a Roma ed in altre Città, introducendolo in tutti gli ambienti artistici. Il dr. Guerrieri assunse le dimensioni di un vero e proprio mecenate. Nel 1932 Antonio Asturi, sebbene conducesse una vita impegnata su molti fronti, prese moglie, unendosi con Serafina, ragazza di Vico Equense, da cui ebbe successivamente tre figli: Gregorio, Anna e Laura. Il sodalizio con il Dr. Ernesto Guerrieri durò circa venticinque anni, ma finì solo quando Antonio si accorse che le sue opere erano quotatissime ed a Lui pervenivano le briciole, continuando ancora a fare la fame, così come annotava in calce ad una sua lettera al Dr. Guerrieri: “sacche vacante eternamente!” Così Antonio Asturi alla fine degli anni ‘40 tornò definitivamente a Napoli nella sua Vico Equense e incominciò il suo ciclo di mostre alle Terme Stabiane, registrando annualmente grossi successi; continuarono regolarmente le mostre a Roma e Napoli e sporadicamente in altre città. Negli anni ’50 vennero organizzate per lui mostre a Londra, a Washington, a Caracas. Nel 1956 venne pubblicata da Treves una prima monografia. Nel 1958 andò per la prima volta a Parigi, dove produsse moltissimo, vi ritornò nel 1970. Nel 1971 andò a Barcellona dove assistette emozionato alle corride, completando un ciclo intensissimo di opere in Spagna. Nel 1972 celebrò le sue nozze d’oro con la tavolozza; si organizzarono così numerose mostre in suo onore e venne aperto un centro d’arte intitolato alla sua figura. Con gli anni ’70 si può dire conclusa la fase impegnata dell’artista; nel 1974, quasi a compendio venne pubblicata la seconda monografia “Asturi mezzo secolo di pittura”. Negli anni ’80 l’artista visse completamente ritirato fra gli ulivi di Pietrapiana, nel novembre del 1985 s’ammalò per la prima volta seriamente. La sofferenza che durò due mesi, lo ridusse alla morte il 3 gennaio del 1986
Pittore autodidatta, s’è dedicato all’arte fin dalla prima infanzia, fu impegnato in numerosissime mostre , esponendo soprattutto a Roma, Milano, Trento, Napoli. Schivo e riservato è stato lontano da ogni schema e/o movimento che potesse classificarlo, fece la sua esperienza futurista, che dichiarò come una sbandata, restò fedele alla pittura figurativa, facendo tesoro degli insegnamenti ricevuti da Antonio Mancini. Antonio Mancini posò per lui nel 1930 poco prima della sua morte e restò talmente entusiasta che controfirmò il ritratto con una esplosione : “Evviva chi l’ha fatto!”, così come Vincenzo Migliaro, che controfirmò il suo ritratto con un “Lusingato!” Posò per lui Benedetto Croce: dell’incontro con B. Croce Antonio Asturi riporta nel suo diario un aneddoto appassionante e necessario a comprendere l’Arte di Asturi :
…“Dovevo dipingere il pensiero, concentrare tutta la gravità di una vita dedicata alla meditazione e farla risaltare sui lineamenti severi del filosofo. A ciò credevo di essere preparato, avevo in precedenza già ritratto diversi uomini di cultura e tra altri il caro amico Papini, ma far risaltare la profondità del pensiero sul profilo di Benedetto Croce, ossia dare al pensiero quel volto particolare, era cosa assai più ardua. Poi, cosa mi avesse convinto che l’intelligenza e la profondità del pensiero dovessero in un modo o nell’altro trasparire dalle linee di un volto, non ve lo so dire. Certo fissando il profilo che mi stava davanti, dai tratti non ricavavo niente di particolare: il profilo di un vecchio; anzi a dire il vero, più lo fissavo e più mi sembrava di cogliere in esso l’aria di un assente, e non il fermento segreto del genio. Tracciai alcune linee senza convinzione. E’ terribile, fa paura, sgomenta trovarsi davanti ad un’intelligenza suprema e scambiarla per demenza. Non potevano esserci equivoci: assente ero io, io che non riuscivo a vedere, a leggere in quei tratti quello che chiunque altro avrebbe facilmente letto e visto. Solo più tardi mi resi conto che la genialità e la demenza si somigliano, hanno lo stesso modo d’esprimersi. Allora queste cose le ignoravo e la confusione mi costernava. Avevo per giorni desiderato con tanta intensità di trovarmi davanti a quel volto, quando finalmente era soltanto a pochi centimetri dai miei occhi, la maschera vuota del pensatore mi fissava, si ostinava a resistermi, mi umiliava con tutti i morsi della mia incapacità a penetrarla. Poi, in un attimo di luce nello studio, attraverso i tratti indecifrabili di quella astratta fisionomia, i miei occhi si posarono sulla vena della tempia. Sembrava che quell’impercettibile pulsazione fosse animata da una forza misteriosa, era lì che la maschera era vulnerabile; era semplice, così incredibilmente semplice, che appariva strano come prima avesse potuto sfuggirmi. Vedevo ormai con lucido stupore la meravigliosa armonia di quel fiotto che per le vie interne distribuiva calore, forza, profondità ad ogni muscolo, ad ogni ruga, alla sottile trasparenza della pelle. Avevo vinto.”
Antonio Asturi è uno straordinario disegnatore e conoscitore dell’anatomia che ha legato la sua fortuna a una serie di celebri ritratti, nonché alle vedute più tipiche della costiera sorrentina. La figura umana, spesso deformata dagli anni e dalla fatica, ha trovato in Asturi un attento e commosso osservatore.
dopo aver posato per un suo ritratto volle testimoniare con la sua critica: “…quando la luce batte sugli zigomi e occhi, su fronti e menti, allora Asturi categoricamente inventa una nuova struttura fisionomica…. ogni volto dei suoi innumerevoli personaggi si fa maschera, un immemorabile ed imperscrutabile realtà che appartiene in parti uguali alla verità umana e alla verità della fantasia-…ogni ritratto di Asturi è vero e metafisico, una traccia dello spirito ferma nella mutevolezza di una faccia.”
“Ama e lavora sempre con animo puro così ti vorrò bene sempre. Fai con Dio principio e fine.”
“Saluto Antonio Asturi in cui scorgo il cuore pieno di romana umanità e lo spirito per i divini voli, per cui salirà alle vette della gloria, fratello di quanti artisti del Rinascimento.”
“Antonio Asturi è un pittore lirico e pieno di movimento. Avrà nome degno di quella scuola napoletana che è e sarà sempre gloria dell’arte italiana.”
“Un pittore l’Asturi incisivo, immediato, profondo; un pittore umano.”
“È un forte e profondo disegnatore. Un grande pittore”.
Asturi Antonio curiosamente, pur nascendo dal versante popolaresco, soggetto quindi alle suggestioni del descrittivismo, si presenta subito, di prim’acchito, con il carattere primario di una sintesi plastica: di quello che è definito il suo “costruttivismo”. Asturi sfronda la sua pittura da ogni orpello, da ogni pittoricismo, dal gusto di una malintesa “bella pittura”. In realtà egli è uno sciabolatore di gran forza. Lo s’è accostato a Mancini: e il rapporto, per taluni versi, c’è inequivocabile. La pittura è data da fendenti, a colpi secchi su cui si crea l’involucro formale. Ma il Mancini cui si riferisce Asturi non è Mancini tardo, cioè materico e rugoso, bensì quello innervato e scattante del periodo precedente. Il Mancini che si richiama al seicentismo di Ribera, del Fracanzano, anche di Mattia Preti, cioè alla matrice realistico – popolare che travalica ogni barocchismo. Una forza strutturale preme dal di sotto. Siamo quindi lontani, per Asturi Antonio, dall’Ottocento tipico napoletano, del genere scuola di Posillipo. Semmai, il riferimento potrebbe andare a qualche brano succoso di un Cammarano, dello stesso Migliaro, soprattutto nella dimensione dei disegni e dei bozzetti, lontani dal descrittivismo come della retorica del folclore popolare. Asturi partorisce la forma con forte sintetismo, la vuole dominare, ne vuol prendere possesso scartando ogni altra seduzione. Non è un formalista; egli tira diritto all’essenza delle cose. Naturale, logico, che sia la figura umana il soggetto predominante della sua pittura. Semmai, se si dovesse cioè indicare per forza una derivazione storica, ci si dovrebbe riferire a quel momento del realismo che nasce intorno al 1870 in Italia e che continua poi, categorialmente, fin dentro il Novecento, come una dimensione nuova di presa di possesso della “cosa in sé”, pur nutrita da radici popolari. Così a Milano si parla di naturalismo lombardo per un Gola e un Mosè Bianchi; a Venezia si va dai forti umori popolareschi di Milesi all’acre realismo di Marco Novati. E’ un filone che travalica le avanguardie, che supera persino ogni accezione stilistica. Il punto di riferimento, come intendeva Courbet, è e resta l’uomo, un uomo che respinge i condizionamenti culturali per esprimere tutta la sua istintività attraverso i sentimenti primari (il dolore, l’amore,la rabbia, la delusione, ecc.). Non a caso nelle figure di Asturi sono solitamente assenti le indicazioni temporali, i riferimenti alle fogge d’abito, le ambientazioni contingenti, tutta quella scenografia del popolaresco che è largamente presente nella tradizione della pittura napoletana. La figura è nuda o sobriamente vestita. Questo tentativo di Antonio Asturi di uscire dall’imminenza del tempo è indice di un realismo “categoriale”. Nella resa fulminea dell’oggetto, Asturi si riferisce però , più che agli esempi dell’Ottocento, ad una temperie tardo-cinquecentesca e secentesca. Nudi e ritratti potrebbero essere riportati a certa pittura di fine Cinquecento, magari di ambito veneziano. Come non sentire la tensione tintorettesca del segno, la sua vibrazione fulminea, la sua energia possessiva? Luca Giordano è l’antecedente immediato; ma in linea generale potrebbero esserlo anche i disegni di Rembrandt, nonché quelli di Rubens. Proprio a Rubens sono affini talune opere, dotate di un dinamismo teso e serrato. Ma in realtà ci si rende conto che Antonio Asturi è e resta un istintivo: la sua cultura figurativa è tutta prensile, cioè si forma per affinità, per sensazioni, per innamoramenti improvvisi. Si capisce che non ci troviamo di fronte ad un pittore né letterato né, in senso generale, colto. La sua cultura, se così si può dire, è tutta di polso. Autenticità biologica; capacità di rubare ciò che la natura offre nella sua immediatezza. Basta osservare le sue opere. La “vecchia che legge” riflette stupendamente l’attenzione persino febbrile, l’ansia, il tremito dei sensi e dell’intelletto: tutto vibra, tutto si agita. Nell’”autoritratto”, invece, si riflette un’energia compressa, resa soprattutto attraverso il forte luminismo che diventa dato formale ma anche dato psicologico. Nel “nudo di schiena” il momento è di estatica contemplazione: i muscoli della modella si distendono, le curve si fanno sinuose, un fremito corre appena sulla pelle liscia. C’è voluttà, ma anche senso sovrano di calma, di equilibrio psicofisico. Si tratta di pezzi eseguiti con perfezione anatomica che incanta. In “ follia ad Aversa” compare l’aspetto espressionismo, drammatico: la drammaticità non è esterna, bensì, ancora una volta, si riflette all’interno della forma, attraverso la tensione della dinamica del segno. Così nella “Donna che prega, qui il dinamismo si fa persino esasperato e la vibrazione ossessiva. Asturi non appare mai legato ad uno schema fisso; si lascia cogliere dall’oggetto, ed in esso riflette il suo stato d’animo. L’artista rinuncia quasi sempre alla ricchezza del colore; preferisce pochi toni ( sulle terre, i marroni, le ocre con lumeggiatura a biacca) ma in essi si riesce a trasfondere la luce-colore. E’ un luminista, come s’è detto; cioè un fulmineo spadaccino che coglie d’un balzo l’essenza delle cose. Tutto il resto (animus popolaresco, gusto del particolare) egli lo lascia fuori dall’opera, è appena sottinteso. Un artista così, di estrazione popolare ma dotato di senso pittorico, di un respiro che non esiterei a definire “europeo” va visto e giudicato in maniera diversa dai parametri della moda. Il riferimento è sempre alla grande pittura del passato. Non importa che i soggetti siano magari le tipiche carrozzelle napoletane: è la nervatura interna cui bisogna guardare. I valori sono quelli di sempre: la “categoria” del realismo che travalica i tempi.”