Autore:MONTARSOLO CARLO
N. - M. :Marmore, 1922 - Roma, 2005
Tecnica:Pastello su cartoncino
Misure:48 x 28 cm
Classificazione: Nature morte, Altre Tecniche, Figurativi, Moderni
Carlo Montarsolo nasce a Marmore, in provincia di Terni, il 29 maggio 1922. Ancora bambino si trasferisce con la famiglia a Portici (Napoli). È il secondo di tre figli; la prima è Teresa, l’ultimo Paolo, che nasce a Portici. Frequenta l’Istituto Tecnico «G.B. Della Porta» di Napoli e nel 1948 si laurea in Economia e Commercio. Ma il suo interesse per l’arte e la letteratura è evidente fin dalla tenera età. Bambino si interessa di letteratura, è già bravo in disegno. A quindici anni, Carlo Montarsolo pittore vince i “Ludi juveniles dell’Arte”, con una serie di «inchiostri» a punta di penna ispirati al IV libro delle Laudi di D’Annunzio. A sedici anni, dopo un tirocinio compiuto presso un ricco collezionista di pastelli olandesi, esegue le prime tavole ad olio insieme ad un pittore locale, Placido, cui si accompagna sulle pendici del Vesuvio e nel porticciolo del Granatello.
Durante un temporale che lo sorprende nella Villa Comunale di Napoli, mentre stava disegnando la famosa Cassa Armonica, ha l’idea di un nuovo impasto pittorico, perfezionato in seguito con l’uso di aniline, e che caratterizzerà le sue opere materiche. A diciotto anni, Montarsolo è chiamato alle armi. Nel 1943 per sfuggire ai tedeschi da Firenze si trasferisce a Roma; qui riprende a dipingere. In una mostra di pastelli ed oli in Piazza Barberini, nel 1944, la critica intravede «singolari doti di eleganza formale e compostezza stilistica». Nel 1945 è a Torre del Greco dove raggiunge la famiglia trasferitasi nella città costiera per allontanarsi da Napoli, colpita dai bombardamenti. Nel locale Circolo Domenico Morelli inaugura la sua prima personale che ottiene un notevole successo. Uno dei quadri è acquistato dal padre del celebre violinista Salvatore Accardo. Risale al 1948 la sua prima importante personale alla «Galleria Forti», in via dei Mille, centro culturale e signorile della città partenopea.
Nel 1950 si reca a Milano, chiamato per una Mostra di giovani artisti intitolata Premio «Senatore Borletti», dove è apprezzato da Marco Valsecchi che lo inviterà a partecipare ad altra mostra patrocinata dal quotidiano “Il Giorno”. Nel 1957 vince il Premio Mancini all’Accademia di Belle Arti di Napoli, unico pittore «esterno» ad avere ottenuto tale riconoscimento. La vita artistica di Carlo si addensa di coinvolgimenti culturali e di pubblici riconoscimenti. Per qualche tempo si sposta a Milano. Qui espone più volte, prima presso la Galleria «Cordusio», poi presso la «Cairola», ed infine con due antologiche, nel ‘72 e nel ‘74, alla Galleria «Diarcon».
Ma Carlo sogna nuovi spazi e nuove ricerche. Parte per il Belgio; a Knokke sur la Mer, una importante stazione balneare sul Mare del Nord, vi sono due grandi rassegne internazionali dedicate a Braque e Picasso. Ne rimane affascinato e al tempo stesso profondamente incuriosito. Studia le opere più importanti dei due grandi maestri. Rientrato in Italia, a Portici, assimilato la lezione del cubismo analitico, studia e dipinge nuove immagini in bilico fra realtà e astrazione, dopo un lungo e sofferto tirocinio personale, dal ‘55 al ‘61.
Nascono composizioni astratto-geometriche che culminano nelle due tele: «Einstein», di proprietà dell’Accademia Aereonautica di Pozzuoli, primo di una serie di «firme» vibrate su simbolici fondi di luce e di colore (Mozart, Brahms, Beethoven, Bach, Leopardi), ed infine il «Tempio Sommerso», una grande tela che si ispira alla Cathédrale Engloutie di Debussy. Il «Tempio sommerso» di proprietà del Banco di Napoli, ottiene nel 1962, alla Mostra del Mezzogiorno tenutasi presso il Palazzo Reale di Napoli, il massimo riconoscimento da parte di una giuria presieduta da Giulio Carlo Argan.
Nel ‘58 è ammesso al Premio Marzotto con tre opere che saranno esposte al Museo d’Arte Moderna di Parigi e di Monaco di Baviera, ed infine alla Permanente di Milano. Seguiranno altri prestigiosi riconoscimenti. La vita artistica del maestro ne è travolta. Si replicano gli attestati di stima dei maggiori critici italiani. Montarsolo partecipa a quasi tutti i concorsi nazionali dal ‘68 al ‘73, vincendone molti e ottenendo, tra l’altro, nel 1969 il 1° premio alla Mostra d’Arte Sacra dell’Antoniano di Bologna, per cui è ricevuto da Paolo VI, e nel 1970 si aggiudica il 1° premio assoluto al Villa S. Giovanni. È invitato, a tutte le Quadriennali d’Arte di Roma, al Palazzo delle Esposizioni; alla Biennale Internazionale d’Arte del Mediterraneo, dove rappresenta l’Italia su designazione della Biennale di Venezia, e quindi è a Melbourne, New York, Sidney quale rappresentante della pittura italiana su invito della Quadriennale di Roma. Nel 1975 Montarsolo pittore su invito degli Istituti Italiani di cultura delle due Americhe, da Montevideo a New York (Columbia University), da S. Paolo a Lima, da Buenos Aires ad Asunción, ed infine a Santiago e all’Università di Valparaíso in Cile, svolge un folto tour di mostre e conferenze, che poi ripeterà in anni più recenti in Europa: a Stoccolma, Oslo, Helsinki, Amsterdam. In queste città e con il patrocinio delle rispettive Ambasciate italiane, egli presenta le sue ultime opere e si impegna in conversazioni e dibattiti in cui spiega la pittura moderna. È parallelo, infatti, al suo lavoro di artista il suo impegno divulgativo. Promuove la conoscenza dell’arte contemporanea, spiega il significato delle ricerche artistiche del dopoguerra, approfondisce il senso dell’arte. Rientrato dopo un decennio di attività svolta prevalentemente all’estero, nel suo studio di Portici, una soffitta borbonica, riaffronta un tema a lui caro, quello del mare. In realtà l’artista, versatile e aperto, percorre temi ricorrenti, che investiga a più riprese, instancabilmente. La sua arte in questo senso possiede una sorta di circolarità espressiva, tematica e stilistica.
Didatta appassionato ha comunicato il divenire dell’arte moderna fino a pochi mesi prima della sua morte, avvenuta il 23 luglio 2005. Nel 2007, il Ministero degli Affari Esteri ha acquisito l’opera «Operaio ferito» (1961) per la Collezione d’Arte Contemporanea della Farnesina.
Due retrospettive antologiche sono state realizzate nel 2008 presso la Pinacoteca di Gaeta e l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli.
Nel 2012, presso la Libreria Guida Port’Alba Napoli, in occasione della rassegna “Novecento e oltre, artisti campani tra memoria e presenza” a cura di Giovanni Ferrenti e Franco Lista, Giorgio Agnisola ricorda l’opera di Carlo Montarsolo pittore. Nel 2014, promossa in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia in Montenegro e riconosciuta come evento culturale della Presidenza italiana dell’Unione Europea, viene organizzata una antologica presso il Museo Nazionale di Cettigne.
Carlo Montarsolo è un “pittore di cultura”, e lo è due volte: prima di tutto perché la sua azione si è sviluppata a Napoli, come elemento determinante di modificazione di antichi luoghi comuni; e, in secondo luogo, perché la sua opera personale, si è mossa a sua volta come una lenta calcolata sottilissima ricerca di linguaggio, che faccia coincidere formalmente e spiritualmente le qualità dell’ambiente particolare con i caratteri comuni ad una vicenda d’espressione che interessa tutto il mondo dell’arte contemporanea. Cultura quindi come funzione e come espressione. Nell’opera di Carlo Montarsolo le recenti vicende della cultura e della espressione artistica, nel senso di un recupero e, meglio, di una rigenerazione della “realtà”, quella esterna attraverso il filtro della visione interiore e perciò di una “realtà psicologica”, sono messe in evidenza con dipinti felici, sia per la preziosa impostazione cromatica, sia per la ispirata capacità di evocazione, in una suggestionante alternativa di oggetti appena impressi nella memoria, di attimi di luce, e di allusioni a presenze fantastiche, di non comune efficienza espressiva.
Un autoritratto del 1990 riproduce il maestro nel suo studio di Portici. Lo sfondo è serale. Si intravedono fasci di luce silenziosa, vetri aperti non già al mare partenopeo ma ad un’onda interiore. L’artista si ritrae in abbigliamento di lavoro, ampie spalle, atteggiamento fiero.
Lo sguardo è pensoso. Chiuso, astratto quasi, le labbra serrate, gli occhi, dietro le lenti, semichiusi. L’artista, ritraendosi, sembra sottolineare la sua natura visionaria, allude nel profilo non più giovane – i capelli scomposti e bianchi, stagliati sullo sfondo scuro – a quel sogno indefinito, di spazi e luce, che dentro la forma attenta e vigilata sono alla base della sua opera e del suo mondo.
Un significativo, raro dualismo segna in effetti, in profondità, tutta l’arte di Carlo Montarsolo pittore, uno dei più interessanti artisti del secondo dopoguerra italiano. Da una parte è la fisionomia del suo segno: lirico, ispirato, dinamico. Dall’altra è l’assetto compositivo delle sue opere: lucido, meditato, scrupolosissimo, che conferisce ai lavori un senso di stabilità ed equilibrio, di misura e interiore concentrazione.
Un dualismo che si legge, al di là della semplice compresenza di due spinte ispirative, come traccia originaria, come tratto del profondo, dell’uomo e dell’artista. Montarsolo pittore, al di là degli esordi pubblici, negli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta, segnati da una lezione sostanzialmente postimpressionistica, filtrata dagli esempi migliori del milieu artistico partenopeo, in cui visse la sua giovinezza, sviluppò presto, anche grazie al suo sguardo internazionale (girò molto in Europa ed ebbe modo fin da giovane di confrontarsi con le maggiori ricerche del momento), un’espressione definita da molti studiosi di ascendenza neocubista. In realtà la questione stilistica non lo prese mai del tutto. Egli puntò piuttosto ad una sintesi espressiva che riflettesse intimamente la sua natura versatile e flessibile. Sicché, pur restando rigoroso sul piano della forma, sempre attento all’insieme estetico dell’opera, egli fu aperto a sperimentare transiti dello sguardo riflessi in una pittura umorosa e prensile, aperta al nuovo, ma anche fedele ad una tradizione che poneva al centro il segno pittorico, come strumento e come visione.
La lezioni cubista, di un cubismo analitico, si decifra sul finire degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta come riferimento di fondo, come prospettiva culturale piuttosto che come emergenza interiore. Montarsolo non varcò mai la soglia dell’astrazione e non si allineò pedissequamente ai percorsi più sperimentali dell’arte italiana, tenendosi sostanzialmente fuori tanto dalle ricerche puramente informali e dai vicini fermenti napoletani, quanto dalla compagine meridionale del movimento nucleare e neo-dadaista. Apertura e chiusura, partenza e ritorno, sotto il profilo artistico e psicologico, nell’opera di Montarsolo sono sempre compresenti. Pur distaccandosi nei fatti da una tradizione localistica, l’artista non ha mai reciso il legame con la sua terra di formazione. Lo si intuisce anche dalle scelte tematiche, come le immagini vesuviane o i paesaggi marini, che sono tra i capitoli più intensi della sua produzione.
Alla base delle opere degli anni Sessanta sono dunque tensione visionaria e attenzione compositiva. Che si profilano compattamente in una struttura dell’opera che implica un’attenzione estrema al particolare, il cui segno possiede una forte valenza materica, recuperata nello sguardo d’assieme in termini puramente pittorici. Si tratta di pitture “ai limiti della fantasia più che dell’astrazione, fatta di spazi precisi, organici, in quel ritmo elicoidale che sembra muovere tutta la composizione”(Vito Apuleo, 1963).
Ma già in questi anni si coglie nella produzione di Montarsolo una sorta di irrequietezza, di bisogno espansivo, solo in parte controllato, che sviluppa nel lavoro una sorta di ciclicità di assetti visivi, che sarà uno degli aspetti dominanti della sua arte. L’artista ritornerà infatti più volte sugli stessi temi, in particolare su quelli che sente maggiormente: in primis le lave e poi il mare, campi, fiori. Paesaggi vesuviani sono già presenti negli anni Sessanta, li ritroviamo fino alle soglie del Duemila. Il tema del mare, del vento, delle onde, è presente fin dall’immediato dopoguerra e si estende fino ai primi anni Duemila. Nella ciclicità non è solo una ricorrenza tematica, ma altresì ispirativa, di un gusto riflesso in una tensione d’anima. Si parla di cicli, ma ad essere precisi si dovrebbe parlare di ambienti spirituali, di paesaggi interiori.
Il tema del mare è uno dei percorsi più suggestivi dell’arte del maestro. Un tema che subisce poche varianti nel tempo. Alcune marine sono addirittura del 1943, le ultime sono del 2003.
Certo, nelle opere più vecchie si legge una più sicura prospettiva naturalistica, con sfondi di barche in un mare tumultuoso e solenne. Le opere più recenti sviluppano un’attenzione più focalizzata sull’onda, sul suo assetto formale, sul suo dinamismo, sulla sua carica espressiva. Spesso mare e nuvole costituiscono un unicum, sono parte di uno stesso scenario, in equilibrio tra realtà e immaginazione.
Il segno dell’artista è superbo. Coltivato nelle più piccole sfumature, con forza e leggerezza, con pastosità di tratto e finezza cromatica. Fisicità e prospettiva metaforica si intrecciano, si amplificano in corrispondenza, aprono a suggestioni visionarie. Ci sono forse Turner e Courbet in prospettiva, c’è l’eco della letteratura di mare, c’è la poesia di Montale, che l’artista amava profondamente, con onde circolari, col colore che si fa forma, coinvolge cielo e terra.
Il registro di Montarsolo pittore è singolare. Per un verso tradizionale, per l’altro del tutto attuale. L’artista napoletano si mantiene sul crinale di una riconoscibilità certa. L’onda è davvero acqua che si gonfia, che si espande, che si piega in volute morbide e solcate della luce, che disegna correnti e fronti di spuma e di vento. La luce riveste e seziona, taglia e amplifica, proviene dall’alto, obliqua o diffusa, ma poi si discioglie in una materia liquida, si fa luce interna, onda intimistica. I cieli, come s’è accennato, sono parte essenziale della composizione. Si addensano, sono cirri e cumuli, si confondono con le onde o sovrastano quest’ultime ribaltando quasi la prospettiva dinamica che in genere li unisce. Sebbene siano realistici, circostanziati, riferiti talora a precisi contesti geografici, i dipinti sono comunque luoghi immaginari, riflessi in uno stato psicologico, in un avvertimento spirituale. Talora, come in alcune opere degli anni Ottanta, la lettura si fa più ravvicinata, il dinamismo dell’onda investe scogli e scogliere, con un taglio ai limiti dell’astrazione.
Altro tema di grande interesse dell’artista partenopeo è quello delle lave, dei vulcani, della montagna in genere. Rappresenta forse il riferimento più conosciuto e rilevante della sua produzione e riguarda un periodo che va dal 1981 al 2002. Il Vesuvio è centro indiscusso della storia partenopea, è simbolo e cortina scenografica del suo paesaggio. Le tele di Montarsolo raffigurano in genere il monte sullo sfondo, sovrastante un primo piano di natura vulcanica, con poca e arida e comunque colorata vegetazione. L’artista ne studia il profilo con un occhio attento ai toni naturali, alla stratificazione geologica, all’ambiente selvaggio e affascinante, carico di cromatismi sulfurei.
La sua tensione visiva si traduce in una innumerevole serie di immagini in cui predominano i colori caldi, terrosi, profondi. Come in Lave vesuviane con ginestre, in cui il cono emerge come eruzione di lava infuocata, erto e solenne. Montarsolo identifica un paesaggio, un contesto, definisce un’atmosfera. Un paesaggio comunque intimistico, che evoca il ventre della terra, porta dentro un fascino di antichità e di mistero. Riprende talora suggestioni ottocentesche (che ricordano certi oli di De Nittis); altre volte si accosta a soluzioni più grafiche e sintetiche, che anticipano stilemi di molta recente produzione partenopea. Il monte viene ripreso con insistenza, talora con identico profilo, con uno spirito quasi cézanniano, come nella serie felicissima di tecniche miste, in genere titolate semplicemente «Paesaggio vesuviano». Possono assimilarsi alle lave alcuni suggestivi paesaggi andini, come L’ombra delle Ande al tramonto, del 1986, in cui il cromatismo acceso di rossi profondi e sanguigni e di aranci brillanti e carichi, stagliati contro un cielo azzurrissimo, restituiscono la sensazione di una terra anch’essa all’insegna del fuoco, vicina e lontana.
Tra la fase materica degli anni Sessanta e il periodo dell’ultima produzione del maestro, e segnatamente negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, c’è un capitolo dell’arte di Montarsolo pittore che merita la più attenta considerazione. È quello in cui il segno prevale nella orditura dell’opera ancora con un doppio spartito, simbolico e visivo. La composizione è maggiormente geometrizzata, acquista una carica energetica, annette forti piani di luce. Il dato espressivo non passa solo per il tramite di una natura emozionale, non riguarda solo lo sguardo sensitivo, ma si concentra su di un assetto grafico, che è insieme forma e citazione (come in “Beethoven”, del 1970 o in “Tralicci di alta tensione”, del 1982). Su di un fondo luminoso, lievitato cromaticamente ma schematico sul piano formale, si profilano a volte scritte, in bella forma stilistica, delineate come onda musicale, riferite a personaggi della storia o della musica. Altre volte il segno si dipana in forme avvolgenti, sviluppa vortici, intreccia saette di luce. È il periodo “musicale” di Montarsolo pittore, emblematizzato dall’opera Pianoforte, che abbraccia gli anni Settanta e Ottanta, un periodo in cui prevale nella sua arte una tensione più sintetica, aperta a una elaborazione per così dire linguistica dell’immagine. Del resto Montarsolo è uomo colto. Conduce parallelamente all’arte una fitta ricerca estetica, tiene conferenze, scrive articoli. Un libro, “Un artista racconta l’arte”, pubblicato nel 2002, compendia la più parte del suo pensiero sull’arte. Tale aspetto della sua attività integra e completa la sua fisionomia di artista consapevole del suo ruolo, anche pubblico: un ruolo comunque svolto eccentricamente, autonomamente, coraggiosamente, fuori dal coro.
Un singolare capitolo dell’arte di Montarsolo pittore, inciso in un biennio, quello che va dal 1992 al 1993, riassume singolarmente in chiave astratta tanto le tensioni stilistiche degli anni Sessanta, quanto l’espressione più sintetica del capitolo precedente. La materia ha perso la sua evidenza, non v’è più traccia di una visione realistica. Ma gli assetti conservano quel suggestivo intreccio di forme e luce che determinano nello spazio il susseguirsi di piani prospettici, estesi in profondità, come specchi dentro specchi. La forma in genere è geometrizzata, sembra introdurre alla lettura di una dimensione cellulare o, all’opposto, siderale. I titoli di queste opere sono in tal senso eloquenti: Eclissi di sole e di luna (1993), Frammenti di meteorite d’oro (1992), Geometrie del nostro sistema solare (1993).
L’assetto compositivo è ispirato. Il sovrapporsi dei piani genera spazi entro spazi, zone di interferenza luminosa, che svelano campiture più e meno cromatizzate, non di rado affinatissime. Ciò che colpisce in queste opere è che al di là del primo piano, di quella zona spessa entro cui le forme galleggiano, si profila uno spazio di luce assoluta, ulteriore. La realtà è sogno, è stupore.
Tra gli anni 1992 e 1994 l’artista realizza un gruppo di opere che riproducono idealmente spazi cosmici, con satelliti e pianeti, rappresentati in un contesto mobile e profondo. I cromatismi sono scuri, a tratti attraversati da guizzi di vivido colore. Sono opere insolite, ma non eccentriche rispetto all’intero percorso artistico di Montarsolo. Ancora stupisce la personalità complessa, versatile, intuitiva, culturalmente aperta del maestro. I titoli sono fascinosi: Satelliti in viaggio, 1994, Due lune con satelliti in orbita, 1992, Sole e luna nel cosmo, 1994.
Il capitolo relativo al paesaggio e ai campi riguarda ali anni più recenti, dal 1999 al 2005, gli anni terminali della lunga carriera del maestro. La tensione spirituale che anima questa scelta non è distante da quella degli altri ambiti tematici della sua espressione. C’è sempre nello sguardo dell’artista una attenzione a ciò che riflette nella natura una spinta interna, poetica, riflessiva. Si tratta di campi suggestivamente battuti dal vento, di mossi uliveti, di inquiete distese di grano. Il vento, che pure direttamente o indirettamente ricorre quasi ovunque nell’arte di Montarsolo qui diventa indiscusso protagonista. La natura si legge non già nel suo assetto statico, ma in chiave neoromantica, nel segno di un riflesso spirituale.
E tuttavia il segno di queste opere è differente, più essenziale, talvolta più grafico, maggiormente composto in sguardi concettuali, contenuto in visioni sintetiche e ravvicinate. Le opere sono suggestive. Vi brilla tanto la forma rigorosa, seppure attenta al particolare sensitivo, tanto l’inquadratura, per così dire, evidentemente pensata a lungo, meditata. Il segno è leggero, mobile, tattile. Inclina al verde, all’arancio, al bruno. La riduzione della forma ad una sorta di schematismo grafico apre all’altro capitolo dell’opera di Montarsolo pittore, quello dei fogliami, di fatto compresente, contemporaneo.
I Fogliami costituiscono l’estremo limite dell’arte di Montarsolo pittore per ciò che attiene alla forma realistica. Il dettato espressivo ha assunto uno schematismo grafico di forte sinteticità. Gli anni di riferimento sono dal 1996 al 2002. La forma conserva una sua intrinseca mobilità, con addensamenti e rarefazioni segnici che corrispondono anche agli sviluppi del colore, un colore peraltro variegato, sia pure in una scala cromatica più ridotta, come nei Fogliame d’ulivo, del 1996. La tensione astratta è evidente. C’è, da parte dell’artista, come il desiderio di acuire il vedere e di cogliere la realtà ad una distanza ravvicinata, al punto da perdere la visione d’assieme. L’attenzione si concentra sui ritmi formali, sugli sviluppi compositivi, che recuperano sovente assetti modulari. Sono soprattutto i fogliami di ulivo e di magnolia ad interessare il maestro, i primi più sottili e addensati, con colori che variano dall’azzurro al verde e all’argento, i secondi meno ritagliati, più spessi, dai cromatismi caldi. È interessante la sensazione di addensamento in superficie che si legge in queste opere, di chiusura quasi, nei confronti di una realtà altra, che si può solo immaginare ed è interclusa allo sguardo. La trama vegetale è infatti fitta, impenetrabile, animata come da una misteriosa e segreta linfa vitale.
Tale sensazione è del resto caratteristica di tutta l’opera del maestro. Dove è leggibile lo spazio, spesso è mascherato il senso, in genere metaforico, talora simbolico. Come nell’arte autentica l’indicibile sopravanza il dicibile.
È questo, infine, l’orizzonte della presente mostra di Carlo Montarsolo, promossa dalla sensibile cura di Claudia e del figlio Federico, grazie alla preziosa collaborazione dell’Ambasciata Italiana in Montenegro. L’opera di Montarsolo vi appare come un’ampia, diversificata e profonda avventura, artistica ed umana, segnata da uno sguardo libero ed espansivo, ma anche stabile, intenso, duraturo.