Autore:VERDECCHIA CARLO
N. - M. :Atri (TE), 1905 – Napoli, 1984
Tecnica:Olio su tela
Misure:40 x 50 cm
Classificazione: Figure, Classici, Oli, Figurativi
Compiuti gli studi all’Accademia di Belle Arti di Napoli, iniziò fin dal 1927 la sua attività artistica, partecipando alle maggiori mostre nazionali ed internazionali (Biennali di Venezia, Quadriennali di Roma, ecc). Ha insegnato all’Istituto d’Arte di Napoli. Sue opere trovansi nella pinacoteca del comune di Pescara, Galleria comunale di Teramo ed in altre pinacoteche pubbliche e private. È il pittore delle stalle, delle mucche al pascolo, dei contadini e dei carrettieri d’Abruzzo, colti sulle grandi strade maestre, fra i monti e il mare. Una rappresentazione realizzata con un sicuro impianto disegnativi, un robusto impasto cromatico, una capacità di sintesi che costituiscono le doti più proprie di Verdecchia, al quale va riconosciuto il merito di essersi costruito una propria identità ed un proprio linguaggio.
fin dall’inizio espresse i propri temi, tipici di una certa tradizione abruzzese, con un linguaggio aspro e sbattuto, tale da ricordare indirettamente, anche per i soggetti trattati, il Fattori degli ultimi anni, quando la tecnica macchiaiola aveva assunto un andamento quasi espressionista. Anche Verdecchia Carlo però, nei fatidici anni ‘30, fu vittima della nefasta scuola del novecentismo napoletano. Ma, per fortuna, lo sbandamento durò poco, e già nel ritratto della moglie si notano i segni di una ritrovata forza realistica. Successivamente tutti i motivi di Verdecchia restano nell’ambito dei sentimenti più intimi, ciò che conferisce alla sua opera un’aria calda e commossa. Carlo Verdecchia torna sovente ai motivi della sua terra, ai contadini, ai pastori, alle scene di campagna con lavoratori che guardano le mucche, alle scene sull’aia, tutti soggetti trattati con sintetica energia, e qualche volta con una sintesi volumetrica che riduce all’essenziale il dato iconografico. In alcuni dipinti, come Contadini, il cui soggetto sembra ispirato alla poetica di un Permeke, i tre personaggi sotto un albero, sul fondo di un paesaggio tempestoso, esprimono efficacemente la vena di un artista che supera di slancio i motivi di una tematica « provinciale»; del resto, in uno dei più recenti dipinti, Paoletta, Verdecchia usa il colore attraverso timbri sottili e, a un tempo, profondi, e ricorda, in qualche modo, il Birolli di « Corrente». Se Verdecchia Carlo fosse stato sostenuto da una critica e da un mercato avvertito e colto, la sua pittura avrebbe respirato un’aria più sana e fruttifera.
La padronanza dei mezzi stilistici, l’alta qualità dell’ispirazione, la sostanziosa sanità del mondo poetico fanno di Verdecchia Carlo un maestro. I trentatré dipinti esposti alla Mediterranea hanno un respiro europeo, eppure son tutti legati all’umile realtà della campagna abruzzese o alla dimessa dolcezza d’una casa napoletana, aperta al sole e al profumo del mare. Qualche opera dà la gioia inconsueta di ritrovare, nell’analisi compositiva, i valori che la tradizione pittorica ci ha tramandato e che l’ispirazione dei veri poeti, di volta in volta, conserva e rinnova. «Contadini al lavoro» ha un impianto classico: le tre figure ritratte s’inscrivono, con perfetta armonia, nella piramide d’un colle, che fa da sfondo ad una piccola valle. Altre opere fermano effetti di luce e di controluce che solo un artista compiuto sa cogliere. Nel dipinto «In terrazza» dei panni stesi al sole appaiono quasi neri contro il chiarore del cielo. E, in «Contadino e mucche», con vigoroso contrasto, è raffigurata, dall’interno opaco della stalla, l’uscita alla folgorante luce del sole d’una coppia di mucche, sospinta da un contadino, veduto di spalle. Una gran forza di penetrazione psicologica anima i ritratti. «Buttero» è insieme il ritratto d’un uomo e d’una condizione sociale. Un’oscura minaccia promana da quegli occhi che l’ombra d’una visiera incupisce. Invece una pennellata più ariosa e una luce dorata soffondono di serenante mitezza la bella figura di «Aurora con la chitarra». E sarebbero da citare tutte le opere. Qui è almeno necessario ricordare il paesaggio collinare pezzato del giallo del grano maturo e del verde degli alberi de «Il raccolto» e la morbida figura d’animale accosciato, cui il bianco rosato del manto e il nero antracite dei grandi occhi e delle grandi nari in fondono il calore palpitante della vita che nasce («il vitellino»).
Dall’alto dei suoi settantasei anni suonati Verdecchia Carlo domina la scena della nostra pittura contemporanea. E può permettersi di guardare con occhio tranquillo, ma più ancora con l’animo colmo di soddisfazione, alla sua lunga milizia d’arte, indefettibilmente sorretta dalla singolare, rarissima, fedeltà a un ideale che, passando indenne attraverso i marosi della contestazione o della sperimentazione di avanguardia, non ha subito l’ingiuria del tempo. Nessuna cristallizzazione, dunque, nessun immobilismo nella sua creazione artistica, ma soltanto ritmo vitale, successione armonica di bellezza e di espressione. Non a caso la critica più avveduta rilevò che la sua storia è una storia di superamento e di affinamento, sia nel senso stilistico che in quello poetico. E questo è molto, moltissimo, tutto per un artista di gran talento, il quale, per l’innata scontentezza dello spirito, muove costantemente alla ricerca del meglio, e mai s’appaga di quanto ha realizzato, e sempre si cimenta per sopravanzare sé stesso, nei tentativo d’imprigionare il bello che gli urge dentro, nello sforzo di rendere quel «quid», misterioso e inafferrabile, che l’affascina, lo soggioga, lo tormenta. Ma questo vuoi dire altresì che l’artista, pur essendo legato alla tradizione, non lo è tuttavia in maniera esclusiva e preclusiva, talché non rimane fuori del flusso di vita spirituale che investe un’epoca e l’impronta di sé. Onde nell’arte pittorica di Verdecchia risalta una felice «contaminatio» di valori antichi e moderni, un modo perspicuo di fondere contenuti, spiriti e forme diverse, con un timbro personalissimo ed originale, sempre. Un incontro con Verdecchia non è soltanto distensivo, per la gran dolcezza con la quale conversa; non è solo edificante, per la certezza che trasmette nei valori perenni dell’arte; ma è pure umanamente fecondo, perché il maestro, entusiasmandosi man mano nel racconto del suo passato, mette a nudo il proprio cuore, palesa l’intimo sentire che lo fa palpitare, fin nelle più riposte latebre, all’unisono con i propri simili. All’età di diciassette anni Verdecchia lasciò la natia Atri, in Abruzzo, e si trasferì a Napoli per frequentare l’Accademia di Belle Arti. Da allora non ha più abbandonato la città partenopea, dove tuttavia insegna nell’Istituto d’Arte, ma la sua produzione porta l’inconfondibile marchio della terra d’origine, dove periodicamente si reca per attingere in loco, direttamente, la sua ispirazione più genuina, più viva e più vera. Abruzzese, infatti, è la matrice dell’arte sua, per una sorta di legame, psichico e fisico insieme, che lo tiene avvinto alla natura, agli uomini, agli animali, alle cose d’una terra, la propria, che si è travasata tutta in lui, sin dall’infanzia, e che lui continua a ritrarre, da mezzo secolo a questa parte, con un pathos umano ed estetico, con un sentimento quasi religioso della vita. Quei paesaggi monumentali, solenni ed immoti, quasi fuori del tempo; quelle figure umane, colte nella loro rudezza primitiva, ancorate saldamente alla fatica quotidiana, al lavoro dei campi che si svolge con la puntualità d’un rito millenario; quegli animali, tanti e diversi, ma soprattutto mucche e buoi, ritratti nell’imponenza della mole e nella robustezza dell’ossatura; quei carri agricoli fermi nella siesta o cigolanti sul selciato; quelle scene di maternità animale o di drammi umani; quei rossi chierichetti del Duomo e quei saltimbanchi di piazza, appartengono tutti ad un Abruzzo tuttora arcaico, squisitamente contadinesco, ma sano e semplice, che è rimasto inalterato. Nella pittura di Verdecchia Carlo risaltano un realismo e un naturalismo vigorosi, sostenuti da una notevole forza figurativa e da una rilevante capacità di sintonizzare i colori. Ubbidiente al richiamo ancestrale dell’istinto, egli adopera, infatti, una tavolozza che risponde, fedelmente, alle sue trame compositive ricche di toni, con le quali registra le impressioni più immediate, più robuste e più vivaci che gli suscita dentro il mondo che lo circonda: un mondo prevalentemente georgico che continua a vivere, autonomamente, nelle sue tele permeate di verità e di poesia.