Autore:SPINOSA DOMENICO
N. - M. :Napoli, 1916 - 2007
Tecnica:Olio su tela
Misure:33 x 49 cm
Anno:1984
Classificazione: Astratti, Figurativi, Oli, Moderni, Figure
Domenico Spinosa, nel 1938 si diploma all’Accademia di Belle Arti di Napoli, allievo di Carlo Siviero e di Pietro Gaudenzi. Sul magistero della pittura napoletana dell’Ottocento, a partire dal 1948, si innesta la sperimentazione sulle potenzialità della lezione cubista accostata a soluzioni di matrice espressionista. Dal 1953, in opere come Macchina da cucire, il colore ricerca una propria autonomia espressiva, si dà come materia e sfrangia l’immagine naturalistica, che viene tracciata con gesti larghi e nervosi. Questo percorso — che conduce dal 1955 alla dissolvenza della rappresentazione in funzione di una più libera costruzione dell’immagine (Il volo del gabbiano, Fondo giallo) — tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, fa approdare l’Informale lirico di Spinosa a una sorta di neonaturalismo che tiene assieme la piacevolezza atmosferica (Tempo grigio, È nata una larva, Museo di Capodimonte) e un controllo sul prezioso impasto cromatico (Interno con manichino). Centrali ancora in questi anni, le suggestioni della realtà circostante (Cinepresa, Proiettore per Nicola), trasfigurate in una cinetica e immaginifica nuova natura. II 1960 è l’anno del prestigioso riconoscimento internazionale con l’invito alla Biennale di Venezia, dove espone con una sala personale. Nella seconda metà degli anni Sessanta la tematica dell’opera di Spinosa si arricchirà di spunti zoomorfici, depotenziando l’elemento materico (Ragno d’acqua, Natura morta marina, la serie Libellula). A tale processo di prosciugamento del corpo del colore segue un sostanziale sviluppo dell’intervento segnico nell’opera (Zuffa), che diviene un campo di equilibrio tra la tensione della materia e quella del segno, principalmente morbido e avviluppato. In questo solco procede la ricerca dei successivi decenni, durante i quali la sublimazione del gesto pittorico — a favore del colore dato come luce — si propone come soluzione alla realizzazione di una piena coincidenza tra arte e vita. Invitato a numerose mostre di rilievo e vincitore di premi (Premio Michetti nel 1957), Spinosa, le cui opere sono conservate in prestigiose collezioni in Italia e all’estero, dal 1973 al 1986 ha ricoperto la cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti, dopo aver svolto per circa dieci anni l’insegnamento alla Scuola di Nudo nella stessa istituzione.
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Domenico Spinosa, titolare di pittura per lunghi anni presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, è considerato tra i pittori più attivi dell’area dell’Informale, alla quale va ricondotta gran parte della sua ricerca. Numerose sono le sue mostre personali in tutta l’Italia e all’estero. Nelle sue tele, il dato reale o esterno, viene sottoposto ad una graduale consunzione, per cui il colore diventa l’unico protagonista del dipinto. Un colore che vede la luce ardere progressivamente la materia attraverso variazioni appena percepibili del tono. Oggi le opere del maestro Domenico Spinosa si possono trovare nelle più importanti collezioni di Arte Contemporanea al livello nazionale ed estero.
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Domenico Spinosa è nato nel 1916. Oggi è un vecchio saggio dal sorriso bonario e solo la sua voce, ancora a tratti tonante, ricorda il timore che provavamo noi tutti quando entrava con piglio deciso nelle alte aule del Liceo Artistico per rimproverarci delle intemperanze e dei primi ribellismi pre-sessantottini. Intransigente e combattivo anche con i colleghi pittori, ha attraversato la tormentata stagione seguita alla seconda guerra mondiale anteponendo a qualsiasi compromesso la coerenza morale della ricerca artistica, in polemica con chi sceglieva le scorciatoie dell’intellettuale al servizio della politica: «Non ho mai fatto parte di nessun gruppo. Il mio è sempre stato un lavoro solitario. Il Neorealismo mi piaceva al cinema, ma in pittura non ha mai significato niente, se si eccettua Guttuso, e neanche tutto. Il grande cambiamento nell’arte a Napoli venne con l’Informale». È vero. L’Informale determinò in tutta Italia un linguaggio comune, in cui ciascuna personalità artistica cercò il suo accento individuale. Nato in Francia, fu il primo movimento artistico che si diffuse a livello mondiale pur seguendo percorsi diversi e spesso contrastanti. Ebbe il merito di evocare uno stato d’animo, più che un registro estetico, in antitesi con gli ideali di padronanza e di misura dell’astrattismo classico, a favore dell’espressività dell’artista. L’aggettivo sostantivato «informale» prende la gestualità spontanea dalla teoria surrealista della scrittura automatica e la mischia con l’amore per l’impasto cromatico, reso materico, ruvido con l’introduzione di elementi eterogenei: carta, sabbia, gesso, residui industriali. Suscitò opinioni contrastanti. Sartre, che vi individuò la matrice dolorosa dell’uomo appena uscito dalle atrocità della guerra, fu tra i suoi sostenitori e Georges Bataille chiarì che si trattava di un termine che demoliva «l’idea che gli accademici hanno dell’universo, al quale hanno fatto indossare una redingote matematica. Ma l’universo non assomiglia a nulla se non a qualcosa come un ragno, uno scaracchio, un feto, una vagina, uno sputo» (Bataille, Informe, Paris 1969). Il pittore George Mathieu, che aveva elaborato una tecnica fondata sulla velocità di esecuzione del quadro (più rapida era l’esecuzione, meno la ragione prendeva il controllo sull’impulso creativo), contro l’idea di ragione calpestò pubblicamente i ritratti di Renè Descartes, e dei filosofi dell’Illuminismo, Voltaire e Diderot. Tra i denigratori dell’informale, invece, possiamo annoverare Levi-Strauss: «Ogni artista s’ingegna di rappresentare la maniera in cui eseguirebbe i propri quadri, se per avventura ne dipingesse» (Il pensiero selvaggio, Milano 1964). A Napoli l’influenza delle teorie e delle poetiche informali ebbe una risonanza profonda, e produsse autentici capolavori, con un’inconfondibile «stile», un «colore» particolare, ancora poco indagato. I muri scrostati e lebbrosi del centro storico, la verde improvvisa penombra dei giardini interni attraversati da lampi di luce, le bianche case di calce dei pescatori, le superfici ruvide e ferrose dell’Ilva, il tufo giallo delle case e quello umido dei cortili, il rosso degli interni pompeiani, fornirono ai pittori un vocabolario potente e ricco di suggestioni. Basterebbe leggere i titoli di alcune opere di Spinosa: “Estate”, “Incontro in giardino”, “Muro bianco”, “Volo di libellule” per notare il costante riferimento alla realtà circostante. Dopo di che, però, bisognerà chiarire che gli elementi presi dal mondo che ci circonda per l’artista non hanno valore meramente referenziale. Sono piuttosto «metafore della visione», turbini di energia, suggestioni prelevate dal microcosmo di una natura in ebollizione. Il tutto è temperato da una forte cultura figurativa che presuppone la conoscenza della composizione barocca, la pittura di Luca Giordano, di Caravaggio, che già interessavano il giovanissimo Spinosa quando ancora era allievo di Carlo Siviero e Pietro Gaudenzi ed i suoi primissimi quadri erano influenzati dalle figurazioni neopicassiane ed espressioniste. Già allora, la materia pittorica e l’impasto cromatico prendevano il sopravvento. Nel 1953 la grande svolta: la sua «Macchina da cucire» confonde l’immagine naturalistica, tracciata con gesti larghi e nervosi, in un magma di colore che si apre all’astrazione lirica. «Mio padre era morto in guerra ?racconta Spinosa – e mia madre per portare avanti la famiglia faceva la sarta. Avevo costantemente il rumore della macchina da cucire nelle orecchie e quel rumore potevo rappresentarlo solo con un colore non naturalistico, un colore che raccontava i miei sentimenti, il mio stato d’animo». Una serie di critici e di storici dell’arte si appassiona al lavoro di Spinosa, da Arcangeli ad Argan, da Calvesi a Barbieri a Vergine a Carluccio a Valsecchi a Vivaldi. Le sue mostre in Italia si intensificano; fin dal 1954 partecipa a tutte le Biennali, vince il premio Michetti, espone a Roma, a Spoleto, e più volte a Torino; ad un certo punto gli propongono di trasferirsi: «Ma avevo ancora mia madre anziana, i figli piccoli che non potevo abbandonare? e poi non volevo lasciare Napoli». Eppure, come scriverà Lea Vergine, intorno a lui la città è indifferente, «la mancanza di consenso, prima di essere rimprovero, è incomprensione». Spinosa è avaro di dati biografici personali e, se insisto, taglia corto come se ponessi domande impertinenti. «La mia vita è tutta nella mia pittura». L’artista è comunque molto legato a Napoli. Insegnante e poi direttore del Liceo artistico, dal 1973 fu titolare della cattedra di pittura dell’Accademia. Per queste due istituzioni, allora riunite in un unico edificio, l’Informale fu una lezione costante. Si può dire che tutti coloro che si formarono in quegli anni, anche la generazione successiva, che abbracciò in seguito altri stili e percorse altre strade, ebbe come esperienza fondante la pratica dell’Informale. Con l’Informale la nostra città svolse un ruolo da protagonista in Italia ed in Europa e Domenico Spinosa ne fu un illuminato e personalissimo interprete. La sua pittura fu un esempio di come affrontare la fenomenologia del visibile armonizzandola con l’immaginario e con il vissuto: «L’ingresso dell’astrattismo prima e poi dell’Informale anche all’interno delle Accademie, dimostrò che non contava l’appartenenza a gruppi o a scuole, la distinzione non andava fatta tra figurativo e non-figurativo, quanto piuttosto tra le creazioni forti, riuscite, significative, e le creazioni deboli, mediocri, insignificanti. Un fatto oggi unanimemente riconosciuto, che ha reso gli artisti innanzitutto padroni della propria libertà».
In Italia, grazie a Burri ed a Fontana le teorie nate dall’Informale rappresentarono un punto di riferimento importante anche negli anni successivi e l’originalità della scuola napoletana ebbe un eco notevole. Alla XXX Biennale, nel 1960, Spinosa poteva ancora porsi come uno dei più convincenti protagonisti dell’ondata informale italiana. Fino agli anni ottanta, incurante di mode e di scuole, Spinosa continua a sperimentare impasti cromatici, trasparenze, scansioni di colori e di superfici, interessando anche le «nuove ondate» critiche.
Ma non ha mai sentito il desiderio di cambiare modo di dipingere? «Ho continuato ad indagare la luce, anche se più spesso nei miei quadri si insinuano forme e figure un po’ inconsistenti come capita nei sogni o nel ricordo». Spinosa non ha disdegnato la rappresentazione simbolica, allusiva. In un grande dipinto regalato alla figlia Aurora che viveva un momento di difficoltà, ha raffigurato una luna nera calante ed una luna nuova e gialla che sorge. Il tutto su un fondo azzurro che ricorda le onde del mare o un cielo nel quale si muovono larve luminescenti. Altre volte ha rappresentato “battaglie di libellule”, “zuffe”, “aggressioni”, “farfalle di luce” come grovigli psicografici, tensioni interiori, voli vittoriosi. Questo grande vecchio, che riempie l’aria con i suoi gesti ampi e scattanti, sempre come se avesse davanti una tela di grandi dimensioni da riempire di luminosi colori, continua a dipingere ogni giorno. Nella casa-studio di Salvator Rosa mi mostra i suoi ultimi lavori con orgoglio: «Sono dei bei quadri, no? E lo dico non perché li ho fatti io».
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Fin dagli esordi è segnalato dalla critica come uno degli artisti più interessanti del panorama italiano. Una peculiare sensibilità nei confronti del colore, quasi sempre impalpabile, aereo, pur nella consistenza materica è il suo tratto caratterizzante. Negli anni cinquanta è presente con mostre personali e collettive su territorio nazionale e internazionale. Nel 1960 è presente con una personale alla XX Biennale d’Arte di Venezia. Gli anni successivi sono segnati da un susseguirsi di mostre a dimostrazione del suo impegno lavorativo e del riconoscimento della novità e della freschezza del suo linguaggio pittorico volto a svelare le possibilità di espressione insite nella materia/colore. Egli stesso afferma in una intervista “…la mia è una pittura materico/segnica, in cui la materia è ciò che palpita, che vive, il segno è quello che incide, vince questa materialità con forza, con veemenza…”. Ed è questa forza, modellata dal tempo e arricchita dall’esperienza, a permeare di sé le opere che l’artista ha prodotto in questi ultimi anni (recentemente esposte in una personale a Napoli) nelle quali emerge in maniera esplosiva un linguaggio antico nei contenuti ma perennemente nuovo nelle forme espressive.
Domenico Spinosa per molti anni è stato titolare della cattedra di pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli ed è stato un punto di riferimento per molte generazioni che hanno riconosciuto il lui un maestro riconfermandone il metodo e portando avanti la sua ricerca pittorica con risultati di grande rilievo e spessore culturale.
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“La pittura di Spinosa dichiara esplicitamente un’aspirazione all’ordine, alla pulizia, alla chiarezza che è prima di tutto della mente e dello spirito e poi si esprime come ordine e pulizia e chiarezza strumentale, con immagini cariche di una loro vita autonoma, che si fanno apprezzare già nel campo dei valori formali: l’accordo sempre armonioso del tono, la sapiente graduazione di una materia pittorica modulata tra corposità opache riflessi e trasparenze, tra asperità e subitanei abbandoni, tra impuntature e distese tenerezze; un fruscio continuo, un movimento di superficie che scopre la formazione del fondo, s’increspa, si arriccia, tra marezzature, correnti e scie e richiama per analogie plastiche i caratteri dominanti di una natura nella quale si incontrano e si mescolano le falde della lava e le coltri della cenere, le porosità dei tufi e la compattezza liquida del mare.”
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“Davanti a Spinosa, anziché scandagliare dal punto di vista formale, l’essenza del brano di colore decantato nelle sue asperità e nelle sue tenerezze, vien fatto di parlare (raramente accade per un astratto) del suo mondo: di reperire cioè motivi e aneddoti nei riferimenti che non esita a suggerirci. Chi ne conosce l’opera, sa che nel percorso stilistico di questo pittore, non vi sono mutamenti improvvisi e clamorosi. Ogni cosa si è svolta sotto il segno di una meditazione accorata e consapevole, alla luce di un quotidiano processo di revisione e di una ricerca che si risolve, forse appena adesso, entro un’aria castigata.”
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“Lo studio, la scuola, gli oggetti animati d’una loro vita segreta:l’avvolgitrice tessile, il proiettore, il manichino, e più un lembo di paesaggio balenante e subito dissolto in atmosfera, fregiano l’intimità dei ricordi. La materia stessa di questa pittura è inerente al processo della creazione non come ingrediente e strumento, ma nella stessa consistenza della superfici, ora rapprese ora distese, qua in rugosità ed insorgenze di magma influente, là in superfici rasate di antico apparato d’intonaco”
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“E’ meglio dire che la pittura di Spinosa trae gli spunti dei suoi quadri da molti motivi, di emozione e di cultura che si incrociano nella sua mente. Nella sua pittura trovi a esempio i colori gualciti dei vecchi muri di Napoli, le ombre, i colori e le sdruciture dei vecchi intonachi dei vicoli: ci trovi la luce pastosa e cangiante che piove dall’alto e si rifrange dalle terrazze; e ci trovi le preziosità coloristiche del barocchetto napoletano, certi azzurri e verdi giallini e incarnati che schiariscono i dipinti del Sei e Settecento sugli altari partenopei.”
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“Poeta per eccellenza degli effetti cromatici. Spinosa realizza le sue inarrivabili gamme per mezzo di una luce sensibilizzata, intensificata, spostata quasi di grado e frequenza, che lo avvolge di una specie di patina rabbrividente all’interno della quale, ora liquide come al fondo di un acquario, ora tenui e lievi a impalpabili come pulviscolo, vibrano e trepidano s’iridano le forme degli oggetti. L’effetto, voglio dire, è sempre il movimento. Spinosa non si è limitato a esplorare le luce in zone intatte e quasi inaccessibili, ma ha ritratto per l’appunto dalla sua esperienza della luce un senso fortissimo della mutevolezza della realtà fenomenica e, forse, della qualità effimera del reale stesso; pittoricamente parlando, del suo continuo strascolorare e trascolorando divenire altro.”
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“Dall’inizio ad oggi, con più chiarezza oggi, la pittura di Spinosa si bilancia entro questi due poli, solo all’apparenza antitetici: il tentativo di ristabilire una rappresentazione evidente, attraverso simboli acquisiti – e quindi ancora nella più ampia matrice del figurativo (saranno le radici della tradizione, la cultura, uno specifico condizionamento ambientale) – e, di contrapposto, l’inevitabile e prepotente sopravanzare di una materia ora furente e sfrenata, ora decantata e preziosa, che impone una sua orditura di emozioni, del tutto indifferente alla rappresentazione. Essa stessa rappresentazione compiuta e definitiva.
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“E’ chiaro che quella di Spinosa è pittura di memoria. Il geniale artista recupera, con non comune abilità reinventiva, ricordi ancestrali e immagini sepolte sotto la stratificazione della coscienza, dati emozionali che sembrano scomparsi nel nulla e fantasie oniriche: tutto un castello, forse frammentario, di memorie della prima infanzia, l’età in cui è più facile e felice l’incontro con la natura. Anche per ciò il segno di Spinosa è un punto di riferimento aperto a più significati, quasi che la “battaglia” all’interno del mondo biologico voglia rimandare lo spettatore a una più dura contesa che si svolge nel subconscio del pittore.”
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“La pittura di Spinosa è soprattutto materia toccata, frugata e sfatta da una luce che la frantuma, la agita e muove il colore, il bel colore di Spinosa, che viene dai muri gialli di Napoli, dalle rosse pareti di Pompei, dalle tavole azzurre del cielo e del mare, sino a farlo diventare un bagliore e a rivelare, proprio attraverso i suoi bagliori, certi piccoli nuclei del racconto: qualche riferimento a oggetti, a situazioni sempre intime, domestiche, affettuose.”
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“Il rapporto con la natura, dunque, si stabilisce sempre, nella pittura di Spinosa, anche quando i dipinti appaiano i più stranianti, perché in essi l’illuminazione del colore, la sete di luce della materia, che di continuo riscatta se stessa, raggiungono, fino ad esaltarla, l’ombra profonda della prima provocazione emotiva […]. Ma se il concetto di realtà può suscitare in Spinosa il senso di un’ambiguità contingente per la quale la sua pittura è sembrata mantenere fin dagli esordi una giustificata diffidenza, come per riferimento non inverante del fare arte, si può compiere l’arbitrio della sostituzione del termine in ‘natura’, appunto, che più direttamente si allea all’inquietudine di un destino parallelo, di una speranza di pienezza totale, di un’impazienza generosa. Ecco allora che nell’espansione di questa misura di sé, la pittura di Spinosa, dalla stagione saliente dell’informale, si rivela oggi capace di quell’intima coerenza che è, sempre, mai tradita partecipazione di sé.”
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“Che Spinosa sia un naturalista, o se si preferisce un neonaturalista, quasi un rovescio napoletano della medaglia di quell’“ultimo naturalismo”, di cui parlava Arcangeli, non c’è dubbio. Ciò lo fa essere una sorta di Borlotti del Meridione. Tuttavia, il suo naturalismo è lirico e anche atmosferico più che ubertoso e terragno. Spinosa è un pittore di sensazioni più che di sentimenti, di parvenze fantastiche più che di visioni ottiche, di tenere e ariose atmosfere più che di vedute paesistiche. […] Tutto nell’impasto cromatico di Spinosa si fa effimera epifania nell’ambito di una poetica dell’istante che genera raptosi ictus su ictus pittorici, sotto l’impulso dei quali,nella smania di bloccare l’attimo fuggente della sensazione percettivo-immaginativa, Spinosa sgomitola le sue lunghe tracce, che graffiano l’impostazione cromatica precedente.”
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“Spinosa, infatti, non si è posto all’opera per illustrare la Via Crucis, e nemmeno per raccontare gli episodi della Via dolorosa nella suggestione evocativa […]. In realtà, di quel che è passato tra le mani di Spinosa, di quel che è stato uncinato dai suoi occhi avidi, di quel che è precipitato dentro la contraddittoria vertigine delle sue emozioni e dei suoi stupori, tutto quanto appare ora come scarnificato da ogni eloquenza per essere trattenuto sulle tavole come impronta di una storia che è quella di Cristo e, per essa, di ognuno. Allora ogni passo, ogni “stazione”, non può essere che un evento.”
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“Il primo impulso che mette in moto la voracità percettiva di Spinosa è senza alcun dubbio lo spettacolo della luce. Di questa straordinaria presenza lo affascina soprattutto il brulichio delle apparenze, delle forme, delle tracce, delle crepe. Senza la luce nulla esisterebbe e nulla sarebbe visibile. Dipingere per Spinosa significa far nascere la luce. O meglio, vederla apparire ogni volta come fosse la prima volta. […] La vita animale è non solo l’osservatorio privilegiato dello Spinosa recentissimo, ma può essere indicata come l’emblema felice della sua operosa vecchiaia. A ogni insetto, pare di capire, l’estroso, candido, trepidante artista, che ora più che mai prova l’ebbrezza dei sensi e del colore, associa uno scatto di vitalità, un frammento di mistero, una calma vertigine”
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“La pittura di Spinosa, dunque, tende a concentrarsi nella durata della percezione. Non mostra apertamente tracce di fuga verso il passato o indizi di inquietanti premonizioni. Essa appare insediata nel presente. Ma non ciecamente contratta su questo. Essa appare insediata nel presente. Ma non ciecamente contratta su questo. Intorno alla sue immagini si vede palpitare un alone – creato dalla luce variamente diffusa dalle cose stesse e modulata dal filtro dei valori atmosferici […] Nonostante il forte coinvolgimento dello sguardo entro il campo pittorico, favorito dall’assenza della linea d’orizzonte e di qualsiasi indicazione prospettica, non c’è mai l’imminenza asfissiante di un certo materismo informale.”
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“Domenico Spinosa è rimasto fedele all’esigenza di radicare la pittura nella natura intesa come crescita e generazione. Ancora oggi, dopo decenni di insonne laborioso impegno. Il colore, il colore come materia, il tono, la tinta (più di recente), rendono visibile la natura, l’assecondano, nel suo generico “sorgere all’aperto”. Così come il figurale è memoria, è vissuto, linguaggio silenzioso che affiora per alludere ancora alla physis: alla physis che è anche luogo materno. E’ generazione e crescita.”
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“Schietta e verace (autentica), proprio com’è l’artista; energica, disposta all’immediato confronto con la realtà e, al contempo, pronta ad accogliere le venature emotive di un lirismo che sfiora la realtà, le cose, plasmandole nella materia del colore, interpretando la quotidianità (l’anima) di una città come Napoli. Tutto ciò senza mai cedere al ‘racconto’ delle motivazioni, di contenuti, tanto meno alla polemica ideologica, cioè cercando di non farsi prendere da un qualcosa che non sia radicato unicamente nella pittura. Nel dipinto, infatti, […] del noto ciclo dedicato alla passione di Cristo, eseguito, come gran parte delle quattordici tele nel 1985 […], l’artista non si lascia suggestionare dall’immagine raccontata dai vangeli: anzi scopre in essa, nella sua composizione, nei suoi tempi, una lotta tra materia e corpo, fra superficie e spessori di colori.”
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“Con gli anni Novanta ci si trova di fronte a dipinti in cui il battito d’ali di vita, che s’accende nella luce e si ritira nella cenere dei grigi, acquista un andamento così largo ed energico da travalicare i confini della singola opera e trasmettersi, come in un’unica ininterrotta composizione, all’intera produzione di Spinosa.”