Autore:CAJATI ENRICO
N. - M. :Napoli, 1927 - 2002
Tecnica:Olio su tela
Misure:50 x 70 cm
Classificazione: Paesaggi, Oli, Figurativi, Moderni
Enrico Cajati, pittore, scultore, e restauratore di tante opere importanti, nasce il 14/04/1927 a Napoli nel quartiere Vomero da Umberto e Anna De Nicola. Subito dopo la prematura scomparsa della madre, la famiglia si trasferisce nella popolare zona dei “quartieri spagnoli”, dove passa buona parte della sua esistenza. In quell’ambiente popolare inizia il suo lungo cammino di artista a stretto contatto con il popolo, quel popolo povero ma genuino, pieno di tradizioni dal quale attinge e ne condivide l’umore, la passione e le difficoltà morali e soprattutto economiche degli anni tristi del dopoguerra. Uomo di una bontà enorme, sempre disponibile e presente con tutti, dotato di un altruismo innato ma soprattutto legato agli affetti familiari e in particolare al proprio padre Umberto con il quale visse nella stessa casa e che accompagnò fino agli ultimi anni della sua vita, ed il quale lasciò traccia indelebile nella suo animo. Enrico non superò la morte del padre molto facilmente e, figura determinante che lo aiutò moltissimo, fu quella della sua futura moglie Filomena Micillo. Milena, così la chiamava, diverrà la sua guida spirituale, il suo punto di riferimento, il faro dei suoi viaggi nello studio e nella continua ricerca dell’arte. Amava dipingere la vita di Gesù, molte delle sue opere raffigurano la morte e la passione di Cristo. Insegnante umile e generoso, amava i suoi allievi e si dimostrava per essi un amico diventando uno di loro, con una partecipazione nello studio e approfondimento nelle varie materie, diventando allievo e maestro nello stesso tempo, mettendo tutti a loro agio. I suoi dipinti non sono mai stati in commercio perché amava talmente le sue opere che le definiva parte di sé. Nei rari casi in cui l’artista ha venduto, durante il corso della propria carriera artistica, subito ha restituito il denaro per riavere a sé le opere; non si sentiva in pace pensando che i suoi dipinti potessero diventare oggetto di lucro. Era molto generoso, ed ha donato opere a chi riteneva amico leale concedendogli piena fiducia, ma non sempre è stato corrisposto di tanta generosità e lealtà. Infatti, dopo la sua scomparsa molte opere sono state commercializzate. Altre opere sono state donate all’istituto d’arte Palizzi dove ha insegnato per molti anni e dove sono state esposte in quadreria dedicata all’artista Cajati. Le restanti opere saranno utilizzate al solo scopo di valorizzazione e riconoscimento artistico di un uomo che ha dedicato la sua intera vita sacrificando se stesso per una passione e un ideale poco comune e sempre meno rintracciabile. Enrico Cajati muore nel 2002 lasciando tutto in mano alla nipote Assunta Bruno che ne è la legittima erede e curatrice della sua eredità spirituale ed artistica.
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« Non basta soffermarsi, inseguire o tentare di chiarire un’idea; che poi non è che un accenno a quel che si vuol dire. Quindi, non è un ‘abbandono all’istinto incontrollato, caotico, disumano, espressione incompleta di quell’unità inscindibile che è l’uomo: ogni artista trova in sé, senza nemmeno proporselo, un controllo intuitivo, capace, sempre, di dare un ordine e stile al disordine delle sensazioni. Piuttosto è un abbandonare (se così piace) un genere stantio di lotta ove il vincitore è chi ha fatto già fuori tutti. La staticità che offre poi questo « novello Achille » ha un mondo come quello attuale preso da una dinamicità che mette in crisi tutti i concetti e le immagini statiche del passato: dolori senza dolore, morti senza morte, case senza case, mari senza mare e uccelli senza cielo. Così come vanno le cose, secondo me, non si può imitare o copiare la verità. L’imitazione viene dall’esterno, dal di fuori. Il grido di dolore o di gaudio arriva a me lento, quasi inascoltabile; ed ecco che per i tanti avvenimenti è crollata la muraglia che mi univa alle cose per poi ributtarmi nell’immensa voragine (ove siamo tutti) dell’alienazione. Sono al di fuori della realtà (una delle tante), lontano dalle cose della vita. Dai lungomari dove si ammira il pezzetto di panorama, dove una barca a vela è solo un triangolino di bianco, si, io sono assente; ma questo non è una rinuncia alla vita, al desiderio dell’estate raggiante di sole o del ghiaccio caldo d’inverno. Pur saturo di giustizia tento di conformare la ragione all’imposizione dell’oggetto prepotente ».
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Enrico Cajati, nato a Napoli nel 1927, parte da un’esperienza di tipo figurativo modellata sull’esemplarismo di Brancaccio e Bresciani per pervenire, intorno agli anni ’60, ad una dimensione informale, osservata, tuttavia, con capacità d’analisi degli aspetti anche reticolari delle cose, come avviene. ad esempio, in Sole d’inverno del 1966. Successivamente tenderà ad un recupero delle forme e delle cromie essenziali: il bianco, il rosso, il nero, muovendo alla ricerca ed alla definizione del vuoto «dentro» l’oggetto. Sinteticamente, Paolo Ricci poneva in evidenza del Maestro lo «slancio […] e la scontentezza irrequieta»
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Devo a Salvatore Vitagliano la mia conoscenza di Enrico Cajati. Me ne ha sempre parlato, mostrandomi anche alcune opere in suo possesso. E se ho potuto conoscerlo più in profondità, è stato per i suoi scritti appassionati sul maestro. Enrico Cajati, insieme a Raffaele Lippi, fu un artista grandissimo, uno dei più importanti che Napoli abbia prodotto dal ‘600 a oggi. Ma mentre di Lippi ho avuto l’opportunità di scriverne quando era ancora in vita, per Cajati non mi è stato possibile. Questo scritto è postumo, perché dal 1972 al 1983, cioè proprio durante il periodo in cui mi occupavo di critica d’arte per “L’Unità” e “Paese Sera”, egli non ha mai esposto a Napoli. Né ho potuto scovarlo io, come ho fatto per molti altri artisti, Lippi compreso, nella mia Rubrica Laboratorio di “Paese Sera”. Avrei considerato un grande onore poter visitare il suo studio, ma lui non vi ammetteva nessuno che ritenesse in odore di potere. In realtà, col potere non ho mai avuto nulla da spartire, mi sono sempre considerata una semplice giornalista che scrupolosamente e con diligenza adempie al proprio lavoro quotidiano. Gli artisti, tutti, furono i miei compagni di strada. E proprio per strada incontrai lui. Camminavo per via Ghiaia, quando lo vidi fermo presso i Gradoni, con una cartella sotto braccio. È strano, di parecchi artisti ho dimenticato la fisionomia, ma Cajati — che avevo visto solo poche volte — mi è rimasto scolpito nella mente. Di piccola statura, ciò che maggiormente ricordo sono i suoi occhi, chiari, penetranti, a tratti velati di tristezza, a tratti guizzanti di follia. Si, era folle Cajati. Quando gli fui davanti mi apostrofò con queste parole: “Non ti avvicinare, potresti comprometterti, io sono un nazista!”. Disse questo a voce alta, per cui alcuni passanti si voltarono. Io non mi lasciai intimidire, sapevo che si compiaceva di scandalizzare i benpensanti con queste uscite. In realtà tutto era tranne che nazista, e me lo dimostrava proprio parlando come un fiume in piena. Mi travolse letteralmente. Di lui mi colpì soprattutto l’ironia. Era così serio ciò che diceva, così vero, così profondamente sofferto, eppure così sarcastico e stravagante, che afferrare il senso delle sue argomentazioni era impresa davvero ardua. Traspariva dalle sue parole la rabbia e l’amarezza, propria di chi è consapevole del proprio valore e non viene riconosciuto. Cajati era indubbiamente un eccentrico, e questa sua inclinazione all’originalità gli nocque a tal punto che i suoi colleghi, pur stimandolo come un valente pittore, lo considerarono sempre piuttosto come personaggio. Artisti-personaggi ce ne sono stati molti nella Storia dell’arte: Dalì tanto per fare un nome. Ma differentemente dal grande surrealista spagnolo, il lato appariscente della sua complessa personalità era dettato da un lacerante senso di impotenza. Enrico Cajati si sentiva braccato e disperato. Non stupisce che a Napoli un artista di valore, per farsi ascoltare, non abbia altro mezzo che urlare la propria indignazione con le più assurde prese di posizione. In una città che soffoca qualunque voce fuoriesca dal coro dei plaudenti sottomessi alle vessazioni dell’ausystem, la provocazione, in un essere vitale e non rassegnato, può apparire l’unica via percorribile per tentare la propria affermazione.
Cajati aveva subito due gravi umiliazioni: la prima, gli era stata inferta da Lucio Amelio, che per un breve momento sembrava aver preso in considerazione i suoi lavori. Non era cosa facile, in quel tempo, riuscire a sollecitare l’interesse del grande gallerista che a Napoli faceva il bello e il cattivo tempo. Non avendo ancora fatto la sua comparsa sulla scena artistica lo sponsor, né esistendo altri spazi alternativi, come i musei o altri luoghi istituzionali, la figura del gallerista — e della sua galleria — era l’unico tramite fra l’artista e il pubblico. Entrare nel circuito di Lucio Amelio per gli artisti napoletani era quindi garantirsi se non la notorietà internazionale, almeno la sopravvivenza. Ma a Cajati non interessava né questo né quello. Il suo rigore pretendeva forse ciò che un gallerista non poteva offrirgli: l’adesione totale alla sua pittura. Dalle brevi frasi concitate, rotte dall’indignazione (si è sempre reticenti a parlare delle proprie umiliazioni, specialmente quando a subirle è stato un grande spirito) riuscii a captare questo: il gallerista, spinto non tanto da vero interesse personale, quanto dalla “pubblica fama referente”, aveva varcato lo studio dell’artista con l’aria del soccorritore pariniano. Atteggiamento, questo, che era apparso alla sensibilità di Enrico Cajati come uno schiaffo in pieno volto. Una simile arroganza era intollerabile. Così, come il gallerista era entrato, ne uscì, senza che nulla si fosse concluso; anzi lasciandogli nell’anima una ferita sanguinante. Non era la prima volta che ciò accadeva. Non so se Amelio si fosse comportato con la stessa alterigia anche con Mario Colucci, altro grande artista dimenticato, sebbene avesse fondato con Baj il Movimento Nucleare. Ciò che è certo è che a Napoli si sparse la notizia che Lucio Amelio intendesse fare nientemeno che una mostra delle opere di Colucci. Nell’ambiente artistico, stranamente, tutti furono felici di una simile evenienza. Ma poi della cosa non se ne seppe più nulla. Differentemente da Cajati, la follia di Colucci si manifestava col silenzio, lo sdegnato isolamento e la più ostinata inattività. Per vent’anni, fino alla morte, avvenuta verso la metà degli anni Ottanta, Colucci non dipinse più, eppure le opere che ha lasciato potrebbero da sole far luce sull’enorme prestigio che l’arte a Napoli aveva raggiunto. Sebbene fossi sua amica, delle sue opere conosco solo quelle pubblicate una quarantina di anni fa sui libri di storia dell’arte. Poche, ma tali da darmi la conferma del suo valore. Oggi è in progetto la pubblicazione di almeno una monografia su questo grande artista solitario, ma le speranze sono esili. Cajati, invece, non si lasciò mai intimidire da quel muro di indifferenza che la città gli aveva eretto intorno. Più sentiva l’ostilità premergli addosso, più dipingeva. Dipingere era la sua risposta a una società ottusa e la sua catarsi. Ha lasciato migliaia di opere, più dell’intera produzione di Klee, ma nessuno le conosce. Penso con raccapriccio alla fine cui sono destinate se nessuno interverrà a salvarle, ma da un pezzo ho smesso di domandarmi se è giusto che i veri artisti debbano essere annichiliti da una situazione che a Napoli permane da sempre.
La seconda mortificazione aveva il nome di Peppe Morra, l’altro importante gallerista che con Lucio Amelio deteneva lo scettro della situazione artistica a Napoli. Morra aveva addirittura comprato alcune sue opere, certo anch’egli spinto, e dalla stima personale per quest’artista così difficile, e dalle voci che circolavano sul suo lavoro. Sta di fatto, però, che dopo qualche tempo Enrico Cajati gli restituì il denaro e la cosa finì lì. Eppure, differentemente da Amelio, che ti guardava col mento in su e gli occhi abbassati, Morra è un uomo mite in apparenza, discreto, con una sua vena popolaresca quasi quanto quella di Enrico Cajati. Che cosa poteva essere accaduto da suscitare lo sdegno dell’artista? Coltissimo e profondamente religioso, Cajati detestava la volgarità, che è la negazione dell’arte. Per lui il denaro era volgare. Un’arte sottoposta a questo solo criterio era inconcepibile con l’idea stessa dell’arte, che è fondamentalmente etica.
Nativo dei Quartieri. Spagnoli, per studio non possedeva che un sottoscala a Santa Teresa al Museo, a due passi da Lippi. Mi sono sempre domandata come risolvesse in quell’antro oscuro il problema della luce naturale, quella luce della quale i suoi quadri grondavano, e mi sono convinta che la luce scaturiva da lui stesso, dalla sua interiorità, per essere poi trasfusa nell’opera. Avrebbe potuto dipingere nel buio più assoluto, tanto sentiva il palpito della materia. Ogni suo quadro era la ripetizione rituale del ciclo della Creazione: durava esattamente sei giorni, sei giorni di progressive cancellature e velature, finché la figura non emergeva dall’impasto densissimo e tuttavia impalpabile con la leggerezza di una vita in espansione. Riuscire a soffiare l’anima nel cuore stesso della materia, nel fango originario, non può essere solo frutto di straordinaria perizia tecnica; occorre qualcosa di infinitamente più misterioso. Per cercare di penetrare il mondo della sua pittura, si deve tener presente che per lui il problema del colore andava ben oltre le questioni estetiche. Come Kandinskij. Il quale scriveva: “Il bianco, che molti considerano un non colore, è come il simbolo di un mondo nel quale sono spariti i colori in quanto proprietà della materia. Il bianco del silenzio non è morto, trabocca di infinite possibilità di vita”. La simbolica del colore era fondamentale per Cajati. Con il suo contrario, il nero, il bianco si colloca ai due estremi della scala cromatica; può essere sia una morte (nell’antichità era il colore del lutto), che il ricominciamento di una nuova vita, secondo le dottrine orientali della trasmigrazione. Nell’accingersi a una nuova opera egli moriva al mondo e iniziava il suo passaggio all’arte. Una volta steso sulla tela il sudario del bianco, con una serie di velature successive l’opera in rosso ricominciava lentamente a vivere. Rispetto all’asintotico e apollineo bianco, il rosso dionisiaco è inaccessibile, è un colore difficile, come ben sanno tutti i pittori che ci sbattono contro; indica il divieto, la lotta, il vigore, l’energia vitale atta a risvegliare la vita nel cuore stesso della morte. Ma per Enrico Cajati non si trattava di affermare nell’opera una sorta di dialettica interna in cui ciascuno dei colori lottava per la propria affermazione. Il suo problema fondamentale era l’incipit della creazione. Secondo la teoria nietzscheiana dell’ “eterno ritorno”, il cominciamento è ancora nulla e qualcosa deve divenire. Il cominciamento non è il puro nulla, ma un nulla da cui deve nascere qualcosa. Dunque, nel cominciamento è già contenuto l’essere. Questo atto contiene l’uno e l’altro, l’essere e il non essere: è una unità dell’essere col nulla, è contemporaneamente un non essere che è anche essere. Per Cajati, cominciare un’opera significava porsi in questo stadio intermedio, di crepuscolo, che contiene in sé i germi del giorno e della notte. Gli elementi — i colori — esistono, basta solo ordinarli. La creazione non avviene ex nihilo. Nel principio era il Logos. La grandezza delle sue opere risiede proprio nel gesto creativo dell’inizio, che per ogni artista consapevole della propria responsabilità, coincide col momento solenne e perturbante in cui si affronta l’ignoto. George Steiner distingue tra creazione e invenzione (come Coleridge aveva distinto tra fantasia e immaginazione). Attribuendo valore capitale alla facoltà di creare, egli riconosce che oggi, per le teorie decostruzioniste e postmoderne che hanno avvelenato le menti, creare arte è diventato quanto mai difficile, non essendoci più una filosofia teologica a sostenere il mistero supremo del processo creativo. Creare arte significa ripetere il gesto di Dio. Inventare — come fece a suo tempo Duchamp, e tutta la schiera dei suoi seguaci continua ancora oggi a fare — vuol dire applicare un’idea a un oggetto ai fini di una funzione. E una funzione implica sempre un utile pratico. Col promuovere un oggetto di uso quotidiano ad arte, lo si promuove anche economicamente. Non ci stupiamo, quindi, se dopo il dadaismo l’arte ha preso la piega che tutti sappiamo. Così, l’artefatto è diventato “fatto d’arte”, il gioco una categoria dello spirito, l’estetico ha sostituito l’artistico, l’assemblaggio casuale ha rigettato la combinatoria meditata. La sapienza combinatoria di Cajati non aveva limiti. I colori che, come materia e come idea preesistono all’opera, subivano nelle sue mani un diverso orientamento e una nuova capacità espressiva piegandosi al suo arbitrio creatore e concorrendo ad attuare in questo modo la libertà assoluta dell’artista. Il bianco indica sempre una dilatazione dell’essere che si rarefà, il rosso una concentrazione. È per questo che ogni sua opera sembra, nel movimento di sistole e diastole della materia, il respiro dell’universo. Così, se il verde, colore di transizione tra il cielo e la terra — e per questo rassicurante e moderato — arde di disperazione, è perché ad esso sottostà il fuoco acceso del rosso che non è riuscito a spegnere. Basta sollevare un velo di quella terra per ridestarlo in tutto il furore della sua potenza pericolosa. L’autoritratto è il paradigma delle infinite trasmutazioni del colore per giungere alla perfezione della forma e rivelare l’enigma di una personalità complessa, tutta da decifrare. Ma secondo codici di cui non si è in possesso. I suoi nudi sono veri monumenti alla leggerezza, grandi, possenti come nemmeno Renoir li ha mai concepiti, ma in essi la sensualità del colore purpureo è attenuata dalla trasparenza della velatura, come se insieme al corpo noi dovessimo considerare anche lo spirito. Tutto coesiste nella pittura di Cajati, che è inattuale come sono tutte le opere assolutamente originali, nel senso in cui egli riesce a fare a meno della storicità. Questa pittura aspira all’incontestabilità definitiva della sua verità, e perciò, sullo spazio limitato della tela attua un suo proprio tempo svincolato dalle contingenze e dalle successioni degli eventi. Ma se il tempo di Cajati è spazializzato, non perde per questo la sua capacità di organizzazione. Come la musica polifonica che, generando un suo proprio tempo, un tempo autonomo, riesce ad andare in direzioni opposte contemporaneamente, e perciò attuando quella libertà assoluta che l’umanità ha sempre sognato di raggiungere. Quella di Cajati era una libertà sottoposta a una feroce disciplina interiore, perché nel cosmo tutto è regolato e tutto si muove secondo leggi inflessibili, quelle leggi che egli auspicava anche per le cose terrene. E invece l’umanità viveva nel caos dell’ozio spirituale, nell’orgia del denaro, unico parametro di tutti i valori borghesi. Di qui la sua nausea per un mondo che non lo capiva e che comunque lo giudicava. Ma se Cajati detestava il mondo borghese, il popolo napoletano, di cui si sentiva figlio, lo esaltava. La napoletanità, intesa come espressione genuina di un popolo e di una cultura non corrotti dai simulacri borghesi, fu il suo distintivo. E già questo lo rendeva inviso in un clima culturale che rivendicava invece l’omologazione senza memoria e senza colore.
Questo ribelle incoercibile, che viveva in comunione con l’assoluto, in un mondo relativo in cui menzogna e compromesso sono i cardini della vita, non poteva avere vita facile. Il suo isolamento dal mondo dell’arte, perfino dai colleghi, non fu che il risultato di una consapevolezza. Era solito ripetere che gli artisti a Napoli non avevano una coscienza politica, tanto è vero che si facevano schiacciare senza opporre resistenza dai veri nazisti detentori del potere economico e culturale, solo perché speravano di essere notati un giorno da questo potere. Ma allora sarebbero definitivamente finiti, perché la loro singolarità di artisti si sarebbe scontrata con esigenze di altra natura che con l’arte non avevano nulla in comune. Ecco, questa era la visione altamente etica di Enrico Cajati, e questo il mondo che egli combatteva. E questo mondo ha risposto alle sue provocazioni cancellandolo. Farei un torto a Enrico Cajati se dicessi semplicemente che i giovani, ma cosa ancora più grave le istituzioni, oggi non conoscono neppure il suo nome — e questo, sì, è un vero crimine perpetrato dal potere culturale ai danni di una generazione che brancola alla ricerca di un riferimento che non trova. Anche a non voler considerare l’inflessibilità morale delle sue posizioni ideologiche, basterebbe guardare la sua pittura per fare di lui un esempio da seguire. O da contestare, perché bisogna avere un Caio da uccidere per diventare uomini. Allora, forse, il sistema dell’arte smetterebbe di contrabbandare la mistificazione dietro il paravento del gioco e l’arte tornerebbe ad essere ciò che è sempre stata: un duello all’ultimo sangue con la Morte. Si perde, certo, come l’eroe nella tragedia, ma si perdura. La morte è stata sempre l’archetipo della creatività umana. Questo archetipo, fino a poco tempo fa, segnava la contiguità fra la dimensione fisica e quella metafisica. Mancando la dimensione metafisica, la vita è svalutata di ogni suo valore. Ma così è svalutata anche la morte. Il tropo dell’immortalità, a cui hanno aspirato tutti gli artisti, sembra non avere più senso. Oggi nessuno più spera di sopravvivere, nemmeno nei propri segni. Per Enrico Cajati, artista ancora tutto da scoprire, che in ogni sua opera non ha fatto che narrare la genesi della creazione, la vita — il rosso nasceva dalla morte — il bianco e la morte era confermata nella vita.