Francesco Caliendo, Bois du Cazier a Marcinelle

Autore:CALIENDO FRANCESCO

N. - M. :Napoli, 1945

Tecnica:Olio su tavola

Misure:60 x 48 cm

Anno:2018

Classificazione: Figure, Oli, Altre Tecniche, Figurativi, Moderni

Note Critico - Biografiche

Francesco Caliendo

Napoli, 1945

 

 

Bois du Cazier a Marcinelle

Foto del quadro del pittore napoletano Francesco Caliendo raffigurante una figura che fuma in ricordo della tragedia di Bois du Cazier Marcinelle in Belgio, dipinto su tavola 60x48 cm del 2018
Dipinto su tavola 60×48 cm del 2018

 

Francesco Caliendo in questa sua opera del 2018 raffigura un uomo che fuma collegandolo al ricordo della tragedia dei minatori morti nella miniera di carbone di Bois du Cazier in Belgio nel 1956; così scrive l’autore a tergo del dipinto: “Bois du Cazier, allora città di Marcinelle, morti in miniera 262 italiani” .

 

 

Francesco Caliendo e le metafore metabiologiche dell’horror futurus. 

Per Francesco Caliendo l’idea dell’essere coincide con un macabro trionfo della bestialità che, per essere stata determinata da un tradimento alla ragione, ma anche all’ideologia, alla speranza, alla ricchezza della vita che appare ormai trasmutata e fatiscente in tutto il suo squallore, risulta insidiosa e terrificante: addirittura allucinata. Questo pittore dall’ardente immaginazione, si inventa paradossi nei quali l’edificio del tempo si trasfigura e avverte tutta la tragedia di un destino di sperperi mortali. La ratio fantastica si manifesta in un particolare espressionismo che di volta in volta sceglie l’evento tecnico con cui manifestarsi e non disdegna l’iperbole metaforica, specie quando il discorso si fa politico. Francesco Caliendo, sulle tracce di una vicenda umana, vissuta con un misto di distacco, di noia, di assenza, forzatamente coinvolta, diventa visionario per decifrazione conoscitiva. Pertanto l’emblema, l’ipotesi bionico – robotica, il primitivismo proiettato nel futuro dell’uomo ex faber, ex razionale ex in tutto fuorché nel dolore, assume forme organiche ed esibitive in cui, maldestramente, l’istinto diventa determinante. Perciò tra rabbia e organicismo informale, il pittore è costretto a riconoscere all’es, almeno una prerogativa di libertà. Un punto per ricominciare? Chissà, non può certo rispondere Caliendo, come prima di lui non hanno certo risposto Munch, Cuniberti, Alechinsky, Vacchi, Gorky, ogni qual volta si sono trovati a rappresentare la mostruosità umana, anche nei termini più cattivi e dissacratori. Nei suoi itinerari dell’horror futurus, ma vissuto sulla propria pelle, nella propria sofferenza quotidiana di veggente disorientato e malinconico, quasi alle soglie della rinuncia, Francesco Caliendo somma vita, storia e arte in un tutt’uno istintuale dove il sadismo è organico. Si connatura infatti all’individuo e si conferma nella simbiosi di combinazioni di residui tecnologici e brani di umanità, di un furioso e disfatto sentimento terreno che riconosce nel boscismo un antesignano, solo che quei termini sono superati. Un demone cosmico ha ora combinato l’uomo ed il suo prodotto, le sue scorie, per meglio dire, e, attraverso ibridi combinazioni, si scatenano residui tecnologici innestati sul supporto del mammifero – uomo. Egli, nelle nuove dimensioni, diventa scimmiesco, villoso, demone grottesco realizzato di ipotesi bioniche, questa volta senza tappezzeria che nasconda i meccanismi celati tra muscoli e nervi: qui c’è la disfatta della carne e del pensiero, mai più destinati a risorgere.

Il congegno meccanico e la regressione all’istinto che almeno è destinato a regolare nel tempo il deforme assemblaggio che l’avventura tecnologica ha imposto, ormai dovrà seguire un corso di codificazione attraverso il quale l’illogico presente dovrà approdare a qualche forma di logicità. Manca comunque l’uomo per il quale si è lottato, si è sperato. Francesco Caliendo ancora denuncia, ma le sue visioni di progetti – uomini – modificati prefigurano una tragica rinuncia alla libertà, un’idea del mondo nel quale il guasto ecologico mescola rifiuti urbani a brandelli di carne umana, con una macabra ritualità di primitivi attoniti, ritrovati nelle profonde cellule dell’ancestrale, evocati nella memoria come progetto d’archeologia futura e di trionfo d’alambicco che in laboratorio ha scoperto le cellule del profondo e le ha utilizzate per un miracolo. Ecco, ci siamo, la donna partorisce la scimmia. Siamo agli antipodi di quella ironia con cui Biasi, facendo riemergere dalla memoria gli eventi, nella memoria fotografica cercava i fantasmi del passato e atterrava al primordio onnipresente, celato alla vista comune, ma verificabile nell’astuzia della scimmia che, con baffi, barba, look alla moda e prosopopea, si è inventato il ruolo d’uomo. Qui l’uomo c’è, o meglio c’era: si è disperso nei ruoli traditi, nelle menzogne pubbliche e private, nell’immagine specchiata che ha imposto l’urlo di disperazione per la perduta bellezza, per la maschera che è affiorata e s’è sedimentata sul volto degli anni giovanili. Il vizzo, lo sfacelo, il senso del vuoto, gli interni che sono prigionie, come gli esterni, l’accumulo di rancore, la disistima, il sonno interrotto alle soglie del sogno, avrebbe potuto essere anche un incubo, ma bisognava sognano, scandagliarlo, per non impazzire alla rinuncia, trovano solo gli sperperi della cattiva coscienza smascherata. Francesco Caliendo è un esploratore della sofferenza, si sdoppia nel ruolo di chi alla luce e al buio si ritrova con se stesso, con i suoi bisogni irrisolti, uomo del suo tempo, istintivo, feroce, vivo nei sensi e tradito dalla costanza della ragione. Resta pronto comunque a giocare ancora nell’arte con il carrozzone degli zingari, con la giostra, con gli spazi dell’allucinazione in cui si demoltiplicano i giochi e tutti risultano giocatori e giocattoli in un mondo che sogna prati e fanciulli, cavalli di fantasia e lune poetiche, sere di stagioni perdute e di amici fedeli. Ma nell’iconosfera urbana degradata, nella fantasia che riporta al presente solo allucinazioni, Francesco Caliendo non sa provare che un sospiro, una parola che chiarifichi, almeno a livello affettivo ed amicale, le scelte d’un uomo il quale, per guardare al futuro, ha bisogno di restaurare il medioevo della memoria e, per essere se stesso, deve smascherare ogni ipocrisia nelle relazioni convenzionali. La pittura di Francesco Caliendo è drammatica, colta, impegnata, senza impasti ideologici: è invenzione angosciata che, attraverso colori accesi e rapide smorzature, viluppi e grovigli o essenzializzazioni di forme, cerca il presente vivo e, in colori accattivanti per ricchezza cromatica, esprime il negativo di questo esistere che attende una chiarificazione oltre le ripetizioni noiose di una retorica che restaura il suo moralismo nell’acquiescente, nel vasto dolore della nevrosi globale.

Angelo Calabrese

 

 

 

Francesco Caliendo, brevi note biografiche.

Francesco Caliendo, pittore e grafico, è nato a Napoli nel 1945. Si è diplomato presso l’Istituto Statale d’Arte e presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli ove è stato allievo di Giovanni Brancaccio. Opera dagli anni 60 tenendo mostre in Italia e all’estero. Notevoli per apporti critici le sue personali romane (1976), Milanesi (1980), dell’itinerario siciliano (1981-1982-1983) e le presente a Barcellona, Londra, Zurigo, Bruxelles. Recentemente, oltre alla personale tenuta nel 1988 a Pomigliano d’Arco, sotto gli auspici del Comune, ha partecipato a varie mostre in Campania e nel Lazio, evidenziando, spiccata e autonoma personalità, fortemente ancorata ai valori sociali e basilari della civiltà. La tematica di Francesco Caliendo denuncia le odierne disumanizzanti eversioni, significate attraverso efficaci distorsioni fisionomiche e audaci accostamenti di simboli. L’impianto è decisamente originale, la stesura limpida, il tracciato corretto, la resa cromatica armonica e coerente.

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MARCIANO ARTE, galleria d’arte e cornici, Napoli

 

 

 

Salvatore Marciano

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