Autore:CIPRIANO FRANCO
N. - M. :Scafati, 1952
Tecnica:Acrilico su tela di juta sciolta
Misure:Diametro 20 cm
Anno:2023
Classificazione: Moderni, Figurativi, Astratti, Altre Tecniche, Figure
Con il termine iconostasi si è soliti indicare una struttura architettonica costruita per separare, nelle basiliche cristiane, il coro e le navate. Tale struttura, oggi presente per lo più negli edifici di culto orientali, è costituita da un architrave sostenuto da colonne fra le quali si stendono cortine e veli recanti immagini di tradizione cristiana. L’iconostasi cela, dunque, alla vista dei fedeli l’altare sul quale si officia il sacrificio eucaristico consentendo, così, di preservare il mysterium fidei. Si tratta di un nascondere alla vista attraverso la vista di qualcos’altro; un celare attraverso il visibile il luogo dell’inimmaginabile, dell’invisibile. L’iconostasi è, dunque, quella soglia al di qua della quale c’è l’immagine, al di là ciò che non potrebbe essere visto; è al tempo stesso presenza e assenza, immagine ed assenza di immagine, materiale e spirituale.
Non è un caso, dunque, se Franco Cipriano sceglie di adoperare il colore rosso per la sua iconostasi.
Goethe, ne la Teoria dei colori, ha scritto che esso “contiene, in atto o in potenza, tutti gli altri colori” ed è capace” di donare un’impressione tanto di gravità e dignità, che di clemenza e grazia”.
Al percorso di Franco Cipriano, fatto di neri, grigi, bianchi, si aggiunge, quindi, anche il rosso quasi a completamento di un contemporaneo processo alchemico. Il rosso, la rubedo per gli alchimisti, rappresentava il colore intermedio tra il bianco e il nero e, quindi, tra luce ed oscurità, maschile e femminile, sole e luna, ma anche l’unione tra corpo ed anima. L’accezione alchemica del rosso è stata ripresa da Jung nei suoi studi di psicologia analitica nei quali esso rappresentava il sé conquistato al culmine di un processo di individuazione nel corso del quale avveniva l’avvicinamento tra l’ego e il sé: era, quindi, il punto in cui la persona si riappropria del proprio inconscio e lo rielabora consapevolmente ad un livello superiore.
La simbologia del rosso accosta concetti spesso opposti tra loro. In molte tradizioni, ad esempio, fabbro e carnefice vengono raffigurati con vesti rosse: per il fabbro il rosso rappresenta la fusione dei metalli e, quindi, simboleggia la creazione; per il carnefice è il rosso del sangue versato e, di conseguenza, la distruzione; il rosso è il colore dei principi della chiesa, si pensi ai cardinali, ma anche dei principi dell’inferno, Mefistofele su tutti. Nel cristianesimo il rosso è lo spirito santo della Pentecoste, simbolo di nascita o di rinascita.
La ricerca di Franco Cipriano si palesa, dunque, come una intensa pratica conoscitiva, una sorta di resurrectio memoriae dell’artista e del luogo che ospita le sue creazioni. Nella sua pittura non c’è spazio per il superfluo; finanche le figure e le tracce antropiche sembrano emergere con delicatezza quasi “romantica” a non voler disturbare, con la loro presenza, lo scorrere delle cose. È una pittura che mette continuamente in discussione sé stessa; una sorta di dialogo nell’accezione socratica del termine: una giustapposizione di entità che mira a giungere ad una verità da rimettere sempre in discussione. I dialoghi di Socrate risultano, spesso, “inconcludenti” proprio perché non chiudono la “questione” aperta e pronta ad essere nuovamente sottoposta a dialogo. In tal senso, la metodologia artistica portata avanti da Cipriano aderisce al concetto di incompiuto dal momento che è proprio l’incompiutezza che si intravede anche nel suo ragionare sull’incomunicabilità dell’essere umano contemporaneo: i suoi libri sono non libri; non possono essere sfogliati, nessuna parola occupa lo spazio/pagina. Sembra quasi che Cipriano abbia preso a prestito le parole pronunciate, nel Fedro platonico, dal re egiziano Thamus e rivolte a Theuth, considerato l’inventore della scrittura: “tu offri ai discendenti l’apparenza, verità della sapienza; perché quand’essi mercé tua, avranno letto tante cose senza nessun insegnamento, si crederanno in possesso di molte cognizioni, pur essendo fondamentalmente rimasti ignoranti e saranno insopportabili agli altri perché avranno non la sapienza, ma la presunzione della sapienza”.
Una sorta di iconostasi del rapporto oralità/scrittura, invisibile/visibile, pensiero/concretezza. Ecco, dunque, che la videoinstallazione proposta per tale occasione invita a riflettere sulla questione: una cella vuota, un letto sul quale posa una coperta (simbolo di un passaggio umano), una voce che tenta di esprimersi attraverso suoni intermittenti. Alla difficoltà del comunicare di cui sopra, fa da contraltare il desiderio del dire; il dubbio resta: la voce non riesce/vuole farsi capire o sta cercando di apprendere una nuova forma di linguaggio?
È ambiguo il fare artistico di Franco Cipriano; riesce a creare quelle “situazioni interessanti” che secondo Baudrillard “sono quelle in cui il soggetto si sottrae, diventa inafferrabile, paradossale, ambiguo, e infetta con questa ambiguità il soggetto stesso e il suo protocollo d’analisi. Ci si è sempre preoccupati delle condizioni nelle quali il soggetto scopre l’oggetto, senza esaminare affatto quelle nelle quali l’oggetto scopre il soggetto. Ci vantiamo di scoprire l’oggetto e lo concepiamo come se attendesse tranquillamente di essere scoperto. Ma se fosse esso, l’oggetto, che si scopre in tutta questa faccenda? Se fosse esso a inventarci?”
Le icone dell’iconostasi di Franco Cipriano si fanno, dunque, tracce quasi primordiali del fare artistico e comunicativo; e allora quelle mani appena accennate, quei corpi diafani, quella voce rotta sono rappresentazioni del passaggio umano (e artistico); sono sedimenti della memoria tra incomunicabilità, perdita di significato, elaborazione e rielaborazione del dato personale: percezione ed interpretazione di una realtà, oggettiva o soggettiva che essa sia, che esprime dubbi, verità, sogni e desideri.
La ricerca dei primordi, di una origine (delle tante possibili) è espressa dall’artista con gran vigore nelle sue forme circolari che, in maniera quasi naturale, sembrano rimandare al rapporto fondamentale dell’uomo con sé stesso e con l’ambiente circostante. Il cerchio è un codice di una geometria esistenziale dalla quale nulla resta escluso; ogni punto è equidistante dal centro; “è conferenza e centro, è dappertutto e in nessun luogo”, ha scritto Nicola Cusano. I cerchi di Cipriano sono esistenza in potenza e in atto: alla figura ovoidale, potenza di vita, del cerchio nero, fa da contrappunto il profilo umano, vita in atto, del cerchio rosso. L’uno di fronte all’altro, l’uno a completamento dell’altro, l’uno esclude l’altro, ma al tempo stesso ne completa significato e significante. L’uovo che al singolare è maschile, al plurale si fa donna, coniuga l’idea degli opposti generando una con-fusione di identità che si palesa nel profilo su fondo rosso: ciò che interessa a Cipriano è l’idea di una presenza che occupa il “posto delle icone”, l’iconostasi etimologicamente intesa.
Le “icone” di Franco Cipriano sono un vero e proprio atto di rivelazione, alzano il velo, lo schiudono e ne permettono la comprensione. Curioso che il termine greco usato per indicare un disvelamento sia apocalisse, un sintagma, spesso usato con accezione negativa, composto da “apò” che indica una separazione e “kalyptein” traducibile con “nascosto”: una separazione ed un nascondimento; una vera e propria iconostasi.
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Cosa c’è al di là della tela e dell’opera di Franco Cipriano? Che cosa veicola il testo passando? E che cosa, l’artista, superandosi, oltrepassandosi attraverso l’opera, facendola parlare o tacere, a seconda dei casi?
Vorrei rispondere che oltre la tela c’è qualcosa che non passa, se non fosse che con questa formula c’è il rischio di rendere sostanziale un essere o un’essenza che non è facile identificare né trattenere una volta per tutte.
Ebbene, la pittura di Franco Cipriano ci mette di fronte all’intrattenibile ma che – proprio perché intrattenibile – non è dato vedere, non sta lì, non è presente, è indisponibile allo sguardo e alla definizione. O se c’è, c’è nei termini di un’assenza, di un ricordo, di una memoria antica, prima dei tempi, di una nostalgia del perduto e non ancora ritrovato. Da qui la sua ricerca.
Eppure, la sensazione è che ciò che è lontano e indicibile possa essere avvicinato, e che sia possibile dargli voce più che forma (perché qui siamo nell’impero dei segni, delle tracce, delle incisioni, degli indici, delle apparizioni più che del figurativo).
Qualcosa che aleggia come quel “Bello” che nel Simposio platonico non è stato formalmente invitato e nessuno dei protagonisti dell’agone, non dico Socrate, ma nemmeno la sacerdotessa Diotima di Mantinea, che viene evocata nel racconto mitico (anche lei assente, dunque) è in grado veramente di mostrare, ma al limite solo di indicare. Cos’è questo lontano intrattenibile?
Abbiamo usato la parola “cosa” sbagliando, perché è viziata dall’oggettivismo metafisico, dalla logica dell’ente presente e rassicurante. Abbiamo usato la parola “essere”, sbagliando doppiamente perché è la parola più metafisica di tutte.
Quello che c’è oltre la tela è la possibilità di fare un’esperienza, di tentare un incontro, di rispondere a un appello di cui l’artista è tramite e noi destinatari prima e interpreti poi. Grazie a lui (messaggero ma non demiurgo, testimone ma non legislatore) anche noi siamo coinvolti nella catena del senso, nel processo di disseminazione dei segni.
Quella di Franco Cipriano è un’opera che nasce nel cuore febbrile e tormentato della mistica, una scorta di senso nei nostri tempi ricchissimi di attività e così poveri di vita e di spirito. Un’opera umana poco umana, soprattutto poco umanistica.
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Franco Cipriano è nato nel 1952 a Scafati (Salerno)
Si è diplomato al Magistero d’Arte di Napoli e ha frequentato la Facoltà di Architettura e la Facoltà di Lettere e Filosofia. Dal 1972 al 2015 ha insegnato nell’Istituto Statale d’Arte di S. Leucio in Caserta e nel Liceo Artistico de Chirico di Torre Annunziata. Vive e lavora a Scafati, Napoli, Roma.
È attivo nella scena artistica dagli anni Settanta, con attività espositive e di scrittura teorico-critica. La sua pratica artistica interagisce e dialoga con il pensiero filosofico e con i linguaggi poetici. Progetta, cura e organizza mostre ed eventi multimediali, attivando interrogazioni di linguaggi, temi e questioni della contemporaneità.
È stato promotore, negli anni Sessanta e Settanta, di gruppi d’intervento artistico e culturale, con pratiche di arte di azione urbana. Nei suoi percorsi multiformi la pratica della pittura e della scrittura ha incrociato esperienze multimediali, teatrali, e di politiche e organizzazione per la cultura.
È autore di testi di critica, storia, poetica e teoria dell’arte contemporanea, pubblicando in riviste, cataloghi e volumi. È intervenuto in diversi convegni e iniziative sui temi del rapporto tra arte e società, arte e linguaggi, arte e filosofia.
È stato art director dello Spazio Zero11 di Torre Annunziata, Napoli e supervisore nelle attività del collettivo “Di.St.Urb”. Ha promosso e coordina “Artlante, comunità di studi e iniziative per l’arte contemporanea”. Ha partecipato, dal 1969 al 1972, alla redazione della rivista NO diretta da Luca Luigi Castellano. È ministro dell’Institutum Pataphisicum Partenopeium e ha collaborato ai fogli “Patapart” e “Tiè”, diretti da Mario Persico. Dirige la collana “Signum”, per le edizioni Artetetra.
La recente monografia HISTORIA, Grafica Metelliana Edizioni, 2015, raccoglie le molteplici tracce di dialogo e commenti della sua opera di filosofi, storici, critici, artisti, poeti, scrittori (Alfonso Amendola, Tommaso Ariemma, Michele Bonuomo, Enrico Bugli, Massimo Cacciari, Daniela Calabrò, Gennaro Carillo, Luciano Caruso, Vitaliano Corbi, Vincenzo Cuomo, Luca Luigi Castellano, Enzo Cocco, Antonio Davide, Matteo D’Ambrosio, Marco De Gemmis, Antonio Del Guercio, Giulio De Martino, Francesco M. De Sanctis, Ada Patrizia Fiorillo, Bruno Forte, Mario Franco, Dario Giugliano, Marcello Gombos, Giuseppe Limone, Domenico Mennillo, Yurika Nakajema, Ivan Nicoletto, Mario Persico, Elvira Procaccini, Stefano Taccone, Vincenzo Vitiello, Angela Tecce, Stefania Zuliani).
Numerosissime le esposizioni collettive e rassegne, dal 1970 a oggi, a Salerno, Caserta, Napoli, Teramo, Arezzo, Livorno, Lecce, Roma, Torino, Nizza. Historia è l’istallazione realizzata, nell’aprile 2019, per il convegno internazionale “Humanity, betwen lost paradigms and new trajectories”, negli spazi dell’Università degli Studi di Salerno.