Autore:RICCIARDI GIOVANNI
N. - M. :Castellammare di Stabia, 1977
Tecnica:Olio su tela
Misure:50 x 60 cm
Anno:2008
Classificazione: Paesaggi, Figurativi, Oli, Moderni
Giovanni Ricciardi si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Napoli nel 1998. Le prime esposizioni sono del 1992, appena quindicenne. Pur essendo giovanissimo ha già un curriculum alle spalle invidiabile: ha esposto a Napoli, L’Aquila, Sorrento, Benevento, Torino, Ercolano, Avellino, Bollate, Rivisondoli, Milano, Portici, Bologna, Roma, Pietrarsa, Ponza, Perugia, Ischia. Ha tenuto una performance su I popoli del Mediterraneo presso l’Università Irachena delle Arti figurative di Baghdad nel 2002 e l’appuntamento, riproposto a Napoli, si ripeterà a Marsiglia e a Milano. È stato il direttore del centro polivalente di arte applicata Nico Nicosia di Somma Vesuviana, inaugurato il 18 Ottobre 2002 dall’ambasciatore iracheno in Italia, Faris Ali All Sooker. È stato direttore della rivista di cultura e poesia islamica Mare dei popoli. Vive a Milano dove ha lo studio e continua nella sua ricerca pittorica. Sue opere si possono ammirare in permanenza presso la Galleria Marciano Arte a Portici (NA).
“Giovanni Ricciardi, con rinnovata insistenza, mette a nudo quotidianamente i suoi progetti affidandoli ad una lucidità che, contro la teatralità attuale del monologo, diventa sempre più portatrice di pezzi di verità nel coro dissonante in cui alla fine si ritrovano i suoi coetanei. A rendere importante la sua ricerca è, la precisione delle scansioni cromatiche asciugate al massimo da schematizzazioni in forme sempre più persuase e morali. Forme moltiplicate con rinnovata insistenza del suo farsi protagonista, nel lucido gioco di atmosfere da coralità sospesa. In una serie di scene che una concretezza non sottrae alle indicazioni ed al richiamo di particolari che già da lungo tempo gli appartengono, spesso facendo in modo che le immagini non restino una rappresentazione, ma una interpretazione assolutamente lineare che ci scorre davanti. Una sfida di gestualità ai propri moduli, per un racconto che si concentra e riunisce brani espressivi, anche come cronaca oggettiva, seguendo una ricerca continua in un sistema di echi e di contrappunti cromatici, che portano, nel gioco di diversificanti tonalità, nuovi cardini alle realizzazioni”.
Giovanni Ricciardi, pittore, nato a Castellammare di Stabia (Na) nel 1977. Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Napoli terminando il ciclo di studi nel 1998. Dal 2003 Vive e lavora a Milano. Inizia la sua attività espositiva a Napoli dal 1995, sono gli anni in cui frequenta l’accademia di Belle Arti, luogo di incontro/scontro di idee, progetti, concretizzati in un momento di grosso fermento e sperimentazione artistica. Espone successivamente in sedi istituzionali di rilievo in Italia e all’estero tra cui: Napoli (Museo Nazionale, Museo Pietrarsa, Convitto Nazionale), Milano (Fondazione Stelline), Roma (Palazzo delle Esposizioni), Iraq, Baghdad (Accademia irachena), Giappone (Museum of Modern Art di Saitama). Nel 1998 è invitato da Alik Cavaliere ad esporre alla Fondazione Stelline di Milano. Viene in contatto con Emilio Tadini, Baj, incontra cosi tutti quelli che sono gli ultimi maestri di un ineguagliabile periodo artistico e intellettuale italiano. A Baghdad nel 2002 presso l’università Irachena delle belle arti, lancia il primo atto del suo progetto “Steady Link Project”, un insieme di performances e istallazioni tuttora in sviluppo. La sua prima personale arriva nel 2003 “L’inganno dei Sensi” alla galleria Ma di Napoli. Si interessa di saggistica e sociologia dell’arte. Nel 2003 gli viene affidata la direzione artistica di “Mare dei Popoli”, periodico di ricerca estetica e cultura dei popoli arabo-islamici, pubblicato a Napoli (Edizioni Ritualia). Nel 2001 si accosta alla Patafisica, partecipando a “Patafluens”(Casalmaggiore), incontro internazionale di Patafisica, a quel tempo ancora sotto l’alta direzione di Enrico Baj. Viene in contatto con il Collége de ‘Pataphisique di Parigi dove si reca costantemente. Nel 2007 gli viene conferita la nomina di Patafisico dal Rettore dell’Istitutum Pataphysicum Partenopeo di Napoli, Mario Persico.”
L’incessante ed ossessiva ricerca di trovare un punto intorno al quale ricomporre la frantumazione dell’Io per cogliere le ragioni profonde del suo essere nel mondo, è la costante della ricerca di Ricciardi tra il 1995 e il 1997.
Le opere di piccolo formato, in cui alla libertà del colore si accompagna il rigore del segno per volgere ad esiti di sottile eleganza formale, sono testimonianza di un percorso artistico, che per quanto agli esordi, già mostra i segni di una ricerca, sia in termini di contenuti e di linguaggio, seria e consapevole. Una convinzione del suo fare artistico, quale strumento di una conoscenza oltre i limiti dell’umano, che spinge Giovanni Ricciardi a misurarsi con spazi più ampi senza tentennamenti e con quel distacco di chi è consapevole che la vita è solo un viaggio verso quella libertà assoluta cui anela l’uomo.
Nella trilogia dell’essere, il processo di elaborazione delle forme e dell’espressione, che nella nascita e nella vita si rivela attraverso elementi atti a evidenziare l’inconsistenza corporea dell’essere (i pantaloni svuotati, i peli sono segni di perdita), trova, un momento di grande e controllata tensione nella morte. Qui Giovanni Ricciardi attraverso una elaborata e controllata architettura della tela accompagnata da una stesura attenta e misurata del colore, (che prende consistenza materica nell’inserimento dell’oggetto, un libro combusto) ribalta i termini stessi dell’esistenza, trovando nella morte, come rivelazione del non conosciuto, il significato più profondo dell’esistenza.
“…misero, misero in assoluto è l’anonimo crocifisso alla sua storia negata”.
Ha senso la distanza dal suolo, l’essere sollevati, levati come tolti, sottratti, con decisione volontaria alla terra delle radici per inclementi necessità o per l’esilio imposto quando non si conciliano la legge iniqua e il diritto, le scelte democratiche e le pressioni coercitive.
Il discorso è decisamente sociale, d’arte impegnata a comunicare, nell’immediatezza dell’evidenza, come la perdita delle radici possa distinguere nello spirito chi accetta di perdere l’appartenenza alla propria cultura, quella che fa d’ogni progenie, a tutte le latitudini, una stirpe incrollabile (genos asaleuton). Giovanni Ricciardi, sensibilissimo interprete del colore, immedesimato, più che preso dunque, immerso pensosamente nelle tematiche delle trasformazioni, quelle che ci fanno mutanti nel nostro tempo dell’incertezza e del progetto in itinere, ha realizzato un’originale, forte, Performance/Istallazione di suggestiva pregnanza: l’azione coniuga appieno ethos e aisthesis, eticità e valori estetici. Ho usato l’espressione “disintegrare nello spirito”, tenendo conto che dis (come male, non bene) -integrare, sottolinea il dramma di un’accettazione a “far parte” in cui, come tabula rasa, c’è chi si spoglia di ciò che è veramente suo e alla deconnotazione corrisponde la “garanzia” di un super strato che nega la storia, soprattutto a chi non ne ha ereditato l’orgoglio.
Tre è numero perfetto, indica il moto, la comunicazione tra distanze opposte, segna la minima concreta geometria: è sacro all’oriente e all’occidente, da dove sorge a dove declina il sole al tramonto; Tre sono i protagonisti dell’evento d’arte che Giovanni Ricciardi ha messo in posa. Li ha scelti alti, li ha forniti di sgabelli adeguati a rendere netto e organico il divario di “statura” : cm 2,20; cm 2,60; cm 2,40; ecco come apparivano sui loro “podi” , come elevati dal suolo erano nella tragedia greca gli attori che rappresentavano le divinità chiamate in causa.
Gli sgabelli erano coperti dalla tunica che aderiva al pavimento, al suolo, alla terra ovunque, per dirla metaforicamente: Giovanni Ricciardi ha realizzato dei tagli particolari sulle candide vesti dei suoi protagonisti: ha sagomato con tre tagli netti delle probabili tasche, delle finestre con tendina, cinque per il primo personaggio, si badi bene bendato; cinque per il secondo personaggio, con gli occhi liberi; tre per il terzo personaggio, anch’egli senza benda.
Dalle tasche/finestre aperte sulla tela, di sotto la socchiusa pattina, venivano fuori degli eloquenti cordoni ombelicali come strisce segnaletiche zebrate: bianco e blu notte. Il blu della memoria che non sbiadisce, in siglato percorso, come saldo tentacolo, si annodava alle pietre sparse al suolo: dalla terra madre la radicata memoria, le pietre della storia che quanto più gli uomini tacciono, tanto più sono eloquenti.
Ahimè, l’uomo bendato, pur avendo ben cinque possibili legami a disposizione, non li aveva ancorati a nessuna parola d’identificazione: se le parole sono pietre d’angolo nella tradizione, le aveva perdute tutte: era senza vista ed estraneo al suo passato-presente che s’infutura.
Era nel progetto di un’altra volontà, massificante ed ostile alla diversità che fa più ricca la cultura intesa come spazio comunicante.
A rendere più avvertita la condizione di distanza dalla madre terra, prima che avessero indossato il candido saio del pellegrino viandante per necessità , l’artista aveva legato le mani dei suoi protagonisti. Li aveva indicati separati anche dai loro saperi, dal loro saper fare e quindi destinati, almeno in partenza, ad umili mestieri, ad un degrado estraniante che solo la memoria e la certezza identificativa del retaggio tradizionale poteva alleviare.
Giovanni Ricciardi ha sottolineato una delle più tragiche “metamorfosi” del nostro tempo. Una trasformazione massicciamente estesa, che l’artista denuncia mentre depreca la deconnotazione massificata minacciata dall’incombente globalizzazione.
La “prima tappa” di questa lezione d’eticità ricca di valori estetici, che merita degni approdi in itinere con adeguati contributi di esperti di comunicazione e di didattica, ha avuto fortunato riscontro all’Università di Baghdad, durante una conferenza nella quale, senza peli sulla lingua, anche le tematiche richiedevano una propositiva e particolare delicatezza, si è parlato di necessità di comprensione tra i popoli e di libertà culturale che va oltre la tolleranza perché si apre alla comunicazione, alla convivenza con le identità e le diversità. Mi sono trovato a parlare del dovere di valorizzare le culture, le radici culturali dei popoli, fondando il dialogo interculturale sugli archetipi comuni, incorruttibili, sul valore primo: La vita, sulle nuove frontiere dell’esistenza, comprese le rilevanti riflessioni sulla bioetica.
Più convincenti delle parole, insufficienti di per sé, e per giunta trasferite da una lingua all’altra (per cui altri meriti vanno riconosciuti al traduttore, al prof. Malik Abrah, interprete d’eccezione, saggio e sagace a sigillo di una cultura aperta a misura della sua umanità e sensibilità di poeta), sono state le modalità dell’happening/Istallazione del giovane Ricciardi.
L’aggettivo vale a dar senso alla sua forte creatività che nasce dal saper vedere, dall’entusiasmo con cui partecipa agli eventi: è vero, ha più pratica del mondo non chi vi ha più vissuto, ma chi vi ha più osservato. Giovanni Ricciardi è stato bravo anche a siglare della sua segnaletica memoriale una spalla, un lato, dei suoi personaggi, così come citati nell’ordine recavano le strisce segnaletiche oblique, a sinistra, a destra, a destra. La spiegazione è logica: Le bende non consentono di andare verso la luce: La destra, de astro, segnala oriente; la sinistra sine astro, segna l’occidente, il tramonto definitivo della civiltà di chi rinuncia alle radici.
A Baghdad, la mia lettura della realizzazione artistica che si stava svolgendo sotto gli occhi del pubblico interessatissimo è stata sintetica, lo esigevano i tempi e le difficoltà di traduzione simultanea. Faccio ora ammenda e mi pare di non aver dimenticato nessun particolare nella proposta interpretativa. Chissà quanti altri stimoli potrà accendere l’evento in oggetto che andranno ad arricchire il repertorio dei consensi: L’arte comportamentale è bella anche per questo, intanto, dulcis in fundo, mi sono riservato di riferirmi al titolo, proprio nelle conclusioni; è singolarmente appropriato: Steady Link.
Preferisco le maiuscole: Steady Link; cresce infatti dentro e si nutre dei sogni che accendono il pensiero nell’universo dei desideri, tanti talvolta anche appagati negli anni di assuefazione altrove. Quando l’appartenenza, che germina andando “verso” insieme, rende sbiadite le diversità, resiste inconciliato. Né vale il gesto audace d’Alessandro a Gordio a recidere quel legame stretto indissolubilmente tra l’essenza di un uomo e le radici ereditate dal materno seno.
Il viaggio alla speranza, oltre alla decisione dell’esilio, voluto per necessità o subito per amore di libertà, potrebbe frastornarsi tra le migliaia di luci sommate alle migliaia, tra le dovizie di Bengodi dov’è a buon prezzo la cuccagna e l’allegria fasulla spreca e sperpera, ma, in fondo alle pupille, brilla l’orgoglio delle memorie care: Steady Link. S’accende proprio in fondo alle pupille, dove nessun provetto indagatore potrebbe scovare il bambino che stilla da uno specchio di carne che ama e sorride: grande, incommensurabile è il conforto di quell’anello che non si dissalda, forte più del cordone ombelicale che pure è miracolosamente più fermo appena reciso: La separazione misura l’appartenenza nei sentimenti forti e nei pensieri.
Steady Link celebra drammaticamente il viaggio di Enea, non di Ulisse, che la svolta epocale in atto ci impone. Il viaggio è ineludibile nel tempo dell’incertezza, com’è irrinunciabile la tutela della diversità che arricchiscono il convivio nel quale non si consumano i valori.
Dove globalizzazione vuol dire massificato consumismo e negato superamento dei bisogni elementari, cioè il diritto alla vita, la violenza sistematica sottrae natura, storia, civiltà, identificazione. Giusto è apprendere il canto delle radici, serbarlo senza lacune, intatto, soprattutto quando le obbligate distanze fanno volare la nostalgia alle lontane terre amare e belle.
Il II atto di Steady Link project è stato realizzato presso il Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II di Napoli lo scorso 24 giugno 2002.
Giovanni Ricciardi: “In questa seconda tappa è lo “scambio” ad essere protagonista, nella continuità ciclica del recupero delle tradizioni e delle conoscenze umane”. La performance è stata realizzata grazie alla partecipazione di una delle più importanti e anziane danzatrici di “tammorra” (ballo folklorico vesuviano) Chicchina Abate e dal ballerino Antonello Tudisco.
Negli ultimi decenni il ventaglio delle alternative che si aprono alla ricerca artistica sembra essersi enormemente allargato. Il quadro dei linguaggi e delle tecniche tradizionali, per quanto sconvolto all’inizio del Novecento dall’irruzione delle cosiddette avanguardie storiche, ha continuato ancora a lungo a presentarsi, agli occhi dei conservatori e degli innovatori, come l’unico sistema di riferimento, come un banco di prova storicamente insostituibile. Terreno comune di confronto, dunque, anche quando se ne negava la centralità o si avanzavano propositi di sovversione. Tuttavia, già qualcuna delle prime avanguardie – e segnatamente il Futurismo e il Dadaismo – aveva indirizzato il raggio della propria ricerca oltre i confini di quel sistema e aveva aperto un varco al passaggio dallo spazio “separato” dell’arte allo spazio della vita. E’ stato, però, solo con la seconda metà del Novecento che le varie pratiche di “sconfinamento” e di esteticità diffusa hanno dato vita a una vastissima e multiforme produzione di performance e di happening, di interventi negli spazi urbani e nel paesaggio, confluendo, infine, in un unico evento spettacolare entro cui sfuma la distinzione tra dimensione virtuale e mondo reale.
Confinate in una condizione di marginalità rispetto ai circuiti dei mass media e alla diffusione invasiva delle immagini prodotte dalle nuove tecnologie, le arti visive tradizionali si sono illuse di poter superare tale condizione, aprendosi al flusso dell’immaginario elettronico e della spettacolarità e accogliendolo come totalità indistinta, come realtà ridotta ad apparenza assoluta e perciò stesso “mondo vero”, divenuto nietzscheanamente favola, entro l’orizzonte di una civiltà esposta senza ripari alle leggi del mutamento e del consumo. In una società che “è diventata una mostra, un’esposizione pubblicitaria che è impossibile non visitare, perché comunque ci stiamo dentro”(G. Anders), il sogno delle avanguardie di liberare l’arte dalla sua storica “separatezza” e riconciliarla con la vita si è banalmente tradotto nell’estetizzazione universale delle merci, nell’offerta, distribuita attraverso i circuiti del mercato e della pubblicità, di una qualità estetica per tutti o, se si preferisce, di un nuovo genere di “bellezza aderente”.
Non è certamente questo il luogo per tentare una trattazione approfondita ed articolata di un argomento così complesso. L’accenno che se n’è fatto vuole suggerire come proprio la fluida, mobilissima ed illimitata ampiezza d’orizzonti in cui sembrano muoversi oggi i percorsi della ricerca artistica costituisce in realtà un dato estremamente problematico e indurre a considerare, perciò, con grande interesse quei giovani che, rifiutando le ormai noiose chiacchiere sul nomadismo postmoderno, con la sua disinvolta pratica di attraversamento dei linguaggi dell’arte, e diffidando degli inviti ad accettare le regole del carnevale mediatico in cui saremmo tutti irrimediabilmente immersi, cercano, invece, di dare alla propria esperienza artistica un ancoraggio più stabile. E’ questo il caso di Giovanni Ricciardi. Nelle opere che egli espone nella sede dell’associazione Movimento Aperto c’è il segno della compattezza d’insieme raggiunta mediante un lavoro paziente di aggiunte e di passaggi, di modulazioni e di arricchimenti condotti con esplicita curiosità sperimentale, ma sempre gravitando intorno ad un saldo nucleo espressivo iniziale. Ne risulta la sensazione di una coerenza che non è astratta identità formale né generica uniformità di modi linguistici, ma passa attraverso diversi gradi di eterogeneità, riuscendo infine a saldare nell’unità dei nessi percettivi e semantici la pluralità delle materie, degli oggetti e dei segni che l’opera chiude nel suo perimetro.
Il pregio maggiore dei lavori di Ricciardi, strettamente legato al rapporto tra la qualità sensibile dell’immagine e l’alone di senso che intorno ad essa s’addensa, sta forse nel modo in cui l’ariosa geometria dello spazio, interrotta da improvvisi sussulti timbrici, s’accorda con la visione di orizzonti lontani, di paesaggi mediorientali e di allarmati segnali di guerra, e le luci e le ombre, tra la città e il deserto. Le icone, però, si possono assottigliare fino a toccare la trasparenza del simbolo o acquistare l’opaca consistenza dell’oggetto. Ma la materia, modellata sempre con un amore vivissimo per la definizione preziosa del particolare, trapassa subito nella leggerezza della forma. Si sente anzi circolare, in queste opere, una singolare atmosfera fiabesca, che sembra nascere dal fascino discreto di alcune figure floreali e dalla delicatezza di assottigliate stesure cromatiche.
Ricciardi predilige le cadenze piane, distese, e rivela una naturale disposizione alla lineare chiarezza delle strutture. Queste, infatti, non rimangono nascoste al di sotto del livello iconico, ma, portate alla luce, coincidono col rapporto, tutto dichiarato sulla superficie, che i vari elementi della composizione intrattengono tra di loro. Si può dire, allora, che nelle opere di Ricciardi non c’è divaricazione tra figuratività e astrazione, poiché questa altro non è che il respiro unitario della varietà delle cose, il segno dell’ordine cui esse aspirano. Ricciardi, come s’è detto, non ama abbandonarsi alla deriva dell’estetismo consumistico né lasciarsi coinvolgere nel flusso della spettacolarità. Egli intende l’arte come il momento in cui dalla discontinuità dell’esistente si vede affiorare la misura di una regola, sospesa tra l’ideale trasparenza della geometria e l’enigma apparente della scena onirica.
Cos’è lo spazio e il corpo pittorico?
Su cosa si basa la mia visione?
Sento qualcosa da esprimere , qualcosa che preme dentro di me. Verificare. Lo squilibrio armonico che sto realizzando è troppo esasperato.
Le forme sono confuse così come voglio. Linguaggio bloccato da preconcetti , attività comunicativa zero. Non cerco il bello. Devo coordinare il mio essere con l’esterno? Nulla di più difficile. Rappresentare me o ciò che è fuori di me? Sono alle soglie di un grande salto! Spero non sia nel vuoto… Il bel quadretto non serve: sconvolgere, coinvolgere, annullare, costruire, demolire, ingannare, ubriacare, meditare, praticare, sanguinare, parlare, accattivare, permanere, santificare… Avanguardia. Voglio cercare non trovare, il caso non ha più ragione di esistere, siamo fusi. Acerbo.
Nelle prove già dipinte nel 1997 ho raggiunto una combinazione pittorica abbastanza soddisfacente le sfoglie pittoriche si sovrappongono lasciando fuoriuscire il corpo sottostante, mischiandosi lacerandosi, fondendosi.
Ora pongo la mia attenzione di studio ancora una volta sulla forma. Continuo costantemente ad osservare la sedimentazione murale della muffa affascinante per le continue trasformazioni e sovrapposizioni di temi sgretolati, fusi, contaminati. Nell’importanza che do al continuo passaggio del tempo su di un muro confido il mio prossimo sviluppo pittorico. Nel contrasto opposto ma speculare delle immagini troviamo quello che manca, quello che completa.
La crescita è la ricerca verso “l’altro”, verso ciò che è lontano da noi e la messa in discussione del tutto è l’unica arma a disposizione. Un pensiero, un’azione che non medita su se stessa e su quello che non è, non cresce, non scarta, non evidenzia, sopravvive.
L’affermazione di se stessi avviene penso proprio nel contrastare le cose già esistenti, ma non voglio essere frainteso, contrastare non solo quando si può avere a disposizione un qualcosa di oggettivamente più forte. Credere. La verità non esiste, valgono solamente le ragioni. Le ragioni cambiano, ecco perché contraddico sempre quello che affronto quello che vedo soprattutto ciò che dipingo. L’unico mezzo a mia disposizione per fare questo è la pittura, crescere insieme ad essa.
Dunque squarci aperti su nuovi tessuti pittorici, velature, accavallamenti. Quando ciò che è sommerso è reso visibile e ciò che non è sommerso invisibile.
Un progetto per un’opera che rappresenti il tutto universale è quell’opera che contrasta il tutto stesso.
Sin dai miei precoci accostamenti al mondo della comunicazione per immagini ho sentito come necessità primaria di navigare verso le intriganti possibilità evocative dei simboli. Dopo uno studio approfondito sulle possibilità soprattutto tecniche iniziato negli anni 90, nel 1995 il mio interesse si muove su tematiche introspettive con opere come “ex-stasis” fino ad arrivare a quelle del 96, in cui la mia ricerca si è aperta verso l’esterno indirizzandosi sull’approfondimento della visione post-umana tanto discussa e affrontata nei circuiti mondiali dell’arte contemporanea. Dal 97 La mia ricerca si muove prima sulla “emulazione” dei materiali, delle superfici in trasformazione, (come la muffa artificiale in “carnivoro”) poi verso un’analisi che scandaglia le cause degli effetti, le relazioni tra forme e contenui. In definitiva c’è un filo conduttore che unisce tutto il mio percorso, fino ad oggi molto intenso seppure breve, e penso che converta nel mio tentativo di edificare un’immagine e un’opera che non vuole essere solo rappresentazione di una visione individuale,ma che adopera l’arte come mezzo di conoscenza introspettiva sul reale, per una interlocuzione attiva tra il codificato e il decodificabile.
Rieccomi a scrivere sul “momento” che mi trovo a verificare nel mio studio. Gli oggetti che ho prodotto (fiori fluorescenti) “cyclic love” non hanno dato pochi problemi alla realizzazione.
Questo nuovo materiale, poliestere trasparente mescolato con colori acrilici o smalti, rende enormemente. La qualità va ancora cercata all’interno della sua catalizzazione.
Un materiale che possa attivamente includere in se stesso dei corpi colorati mi affascina e mi suggerisce quindi progetti nuovi. La glaciazione, al suo interno, di un gesto mi riporta alla scultura. Ma in più vive il dato prettamente pittorico. Continuo il mio studio sui meccanismi umani e della natura. Con l’ultimo quadro sul ciclo dell’amore.
Il ciclo ritorna costantemente nella continuità delle cose, tutte. Devo continuare in questa direzione accrescendo il dato tecnico/estetico delle forme modellate e conservando sempre la mia necessità strutturale delle forme modellate..
Dell’inganno quotidiano dei sensi come miraggio imposto.
Quando prende corpo il conflitto tra immaginario subìto e sensi non ancora atrofizzati, alla presenza delle ultime forze reattive e ancora capaci di trovare uno scatto di tensione verso la valutazione, per un improvviso sussulto/spasimo di non consenso. Quando davanti all’apparente falsa molteplicità delle scelte, non assiste più la speranza del sogno che assuefatto rimbomba come frustrazione in ognuno di noi, così i sentimenti più incontaminati, che nel buio di soffitte mnemoniche atroficamente ancora risiedono. Sul piano gnoseologico non siamo in un momento diverso dal resto della storia umana, rimane “tutto nuovo” per chi dei sensi ne fa uno strumento inviolato, pertanto tutto è “di nuovo” al cospetto della terra, alla ciclicità di un tempo che detta i suoi sensi e le sue icone multiple rese da tutti, feticci comuni. Ebbene, per una vita subita basterebbe un attimo per ritrovarsi. Un solo istante per ritrovare il proprio asse geocentrico, quel rapporto autentico verso le cose che sia privo di ogni volontà imposta nel quotidiano, in inganno dei sensi. Per questo impulso sbiadito, per quest’unico diapason del pensiero perduto o sommerso che l’uomo prosegue funambolo ai giorni nostri.
C’è da portare avanti un equilibrio, per poter ricodificare tutto quello che è stato reso impalpabile dell’arte. Inevitabilmente abbiamo avuto nell’ultimo millennio una frantumazione del codificato, un’azione disintegrante del significato per l’edificazione di poetiche allusive e portatrici del tutto universale. C’è bisogno di rimettere insieme i pezzi sparsi per poterli ricodificare e ripensare, una chiarezza per poter essere ripensata. Per un equilibrio che non sia soltanto del supporto, come impostazione scenica di nesso logico-visivo, è l’equilibrio tra ciò che c’è dietro o dentro un’opera e ciò che c’è fuori ad essa ad essere prioritaria, l’equilibrio tra ciò che gli appartiene a ciò che l’attende e l’interroga. Dove l’opera si fa cardine tra dimensioni in completa armonia. Il campo in cui operare, gli spazi sono stati percorsi fino al loro svuotamento di nesso logico, fino al loro più impercettibile segreto. Restano le attese non di risposte ma di domande da parte di tutto ciò che non appartiene al mezzo nella sua forma. Chi può prescindere da un campo dove operare in completa fusione oltre che dei mezzi anche da venti lontani? Il campo pittorico prende corpo nella dimensione in cui il suo vuoto bilancia il pieno di fruizione estesa nell’infinito dei media. Il suo pieno non ha funzione nel momento in cui non è in perfetto equilibrio comunicativo con il fruitore. E’ un’interlocuzione attiva, domande e risposte di peso controbilanciato costantemente. Anche lo squilibrio apparente di un tramonto porta con se il contropeso di un universo buio. Così come dove arriva la luce è possibile rintracciare il cosmo a piena forma rivelata in perfetto equilibrio cosmico. L’arte può portare in se il tutto, rispondere a tutto, parlare al tutto di tutto, come rete invisibile su cui inciampare e rimanere imbrigliati nelle risposte. Ecco che il nuovo è di chi ha avuto risposte alle sue domande e il di nuovo, di chi riceve le stesse risposte. E’ necessario raggiungere un punto distante da se per comunicare, poco distante da se per rimanere in possibilità di rilancio, allo stesso modo l’opera deve parlare fuori dal suo corpo, non su se stessa, può rimandare altrove per ripensare nei luoghi di origine la sua deposizione il suo tramite interlocutore. I messaggi plasmati sul corpo dell’opera rimangono in autoriflessione, il corpo del significante rimandato altrove rimane sempre attivo. E’ fuori l’opera che si comunica non su di essa, e al centro tra noi ed essa che avviene il punto di incontro, né su di essa né sui pensieri. E’ poco distante dall’opera l’azione primaria, la leva che porta il messaggio più acuto in fila gli infiniti restanti. L’opera può pensare tutto tranne che se stessa, l’opera d’arte è viva se porta il messaggio fuori da se stessa, e non al suo interno. La nostra comunicazione diventa tale se portata fuori da noi, pertanto se lasciata in sosta psichica rimane pensiero, rimurginazione, riflessione. L’opera d’arte può essere riflessiva se non comunica nulla, se conserva in se la sua comunicazione, e le sue domande le cela. L’opera d’arte può pensare, può meditare sull’universo, e può in quel caso non comunicare ma guidarci alla sua emulazione, alla sua riflessione sull’estasi in atto. La comunicazione è fuori da essa. E’ nel punto d’incontro tra chi domanda ed essa che proietta altrove la sua risposta. Può essere scena aperta su di una realtà che usa l’artista come tramite, come mezzo per essere rivelata, un’ opera come risultato di una possibilità di rappresentazione nell’infinito molteplice rimane affascinante ma non comunicativa, l’opera che intendo non vive per se, non vuole essere spia, non vuole morire di mal di testa. L’opera che intendo vuole domandare, rispondere, odiare, amare, soffrire. L’opera vive nel momento in cui porta poco distante da se il suo messaggio, altrove, annullando il tempo, il suo, divenendo immortale.
(Non si intenda leggendo queste righe l’intenzione di rinnegare la ragione, quanto è proprio alla ragione che si devono le idee e le capacità di raggiungere il nuovo.) Non è il povero colui che non ha in possesso le cose, ma chi è ricco e delle cose ne fa uno strumento di superiorità. Il povero non conosce il possesso e vive tra le nubi, sotto coperte di vento e pareti di sogni. Il ricco non conosce il sogno ma lo insegue alla fine dei suoi incubi con la paura di perdere ciò che stringe tra le mani. Eppure, non è questo il mio intento, e cioè di stabilire le due posizioni materiali, quanto quello di descrivere della ricchezza e la povertà dei sogni. Al risveglio sembra uguale, il placido sbadiglio dei due soggetti che viaggiano nello stesso tempo inseguendo così distanti i venti che fanno la differenza. Non è facile riconoscere colui che porta in se e con se la sua libertà, avvolta al collo come il dono più prezioso della vita. La povertà dell’uomo è la sua incapacità di riconoscere la sua leggerezza, il suo volo tra le emozioni più pure, in assenza di contaminazioni incontrollate. Ma non è sua la colpa se nel cammino gli sono state negate le radici, e al tempo stesso le ali, di un tempo in cui amava viaggiare di fantasia e giocare con il proprio corpo. La coscienza di un uomo lo fortifica illusoriamente, fallace immagine di una maturità che lo blocca e lo rinnega.
Il vero stato di grazia sta nel tenere salda la propria ingenuità, nel quotidiano. La cosa più dura da recuperare nella vita è l’ingenuità perduta. E qui vi dico, in tempo di recupero che non è comune a tutti vivere nel sogno ripercorrendo il proprio passato. Ci si rende conto per la schiavitù del corpo che è innaturale il sogno, la crescita è evoluzione del corpo e involuzione del sogno. Quanto più ci si riempie di realtà più ci si svuota di sogni. Il sogno è un dato mentale, alimento e carburante continuo alla vita. Il sogno è l’ingenuità del corpo che si immola nella cavità del reale. L’uomo senza sogni è l’essere più povero in assoluto, perché alla realtà si lega totalmente e non ha nulla in più per rivestirla/colmarla.
La realtà diventa realtà uguale per tutti. Ma non per l’uomo con i propri sogni stretti tra le mani, lui no, quest’uomo muta l’esistenza nell’irripetibile combinazione della propria fantasia, euforia che lo avvolge e coinvolge il suo astante. Lo purifica e lo innalza perché padrone della realtà, perché piccolo creatore di un nuovo cosmo nel cosmo. L’uomo con la propria ingenuità stretta tra i denti innalza gli eventi e guarda con l’occhio sempre vergine di chi non ha paura e al mondo si dona costantemente. La paura parte dalla conoscenza del dolore, si afferma troppo spesso il contrario e cioè che la paura sia frutto dell’incoscienza. Fare dei propri sensi uno strumento inviolato è garantire a se stessi la propria ingenuità fino alla fine di un’emozione. Questa è la persona più ricca al mondo. Questo, è l’uomo capace di ricevere la vera risposta dal vento creatore che non sfugge al suo corpo ma lo avvolge e lo innalza con il suo alito di vita. Quanto dura l’ingenuità di un uomo e quante sono le ali che gli sono strappate di botto senza preavviso in un unico respiro? Ho sempre guardato la natura e il suo silenzio con cui seduce chiunque ad esso sia legata. Si, perché la seduzione massima è il silenzio e la natura insegna ad essere con il suo silenzio. Noi, legati al respiro degli altri inevitabilmente, respiro fatto parola e da inutili sofismi, mentre il silenzio della natura ci brucia il passo e ci distanzia dalla natura prima semplicemente “essendo”. Non ci sono mai state abbastanza parole per descrivere il fuoco magico che dentro si muove, fuoco di vita che a tutto e in tutto si riversa. Così è necessario “sentire” e non “ascoltare” sentire con il cuore per quanto ancora ne resti oggi dentro uomini fatti di impulsi portati a livelli di domanda e risposta. L’elaborazione dell’emozione non ha il tempo di svilupparsi e qui si rimane al punto in cui la risposta diventa incudine e martello. Sul piano della comunicazione verbale ci si muove come su di un banco del fabbro, a schiacciare parole sotto il fuoco delle necessità individuali che così le immolano.
Le azioni sono la vera comunicazione, il fare e non il dire, illusione umana di concettualizzare l’istinto. Si, come gli animali, che con uno sguardo e un segnale rimandano alla propria verità.
Cosa ci legherebbe ancora al pensiero d’amore se non l’ingenuità come capacità di abbandonarsi nuovamente? Oramai è fin troppo chiaro, è alla nascita che dobbiamo il primo dolore, la prima perdita di stabilità biologica, emotiva. Senza possibilità di tornare indietro così come non avverrà mai per nessuna altra cosa nella vita se non in una sorta di di nuovo. E’ un inganno dei sensi la sensazione di aver perso qualcosa definitivamente e con nessun altro dolore simile per quanto sensazione simile la ritroveremo e la perderemo continuamente fino all’ultimo giorno vissuto. La sindrome dell’abbandono, del distacco forzato eppure fisiologico della vita e delle sue regole. Così l’amore più giovane rimane il più arduo da trascurare perché risveglia il ricordo stipato di un dolore che ci ha illuminato l’orizzonte al primo sguardo di vita. Per questo non si può parlare di amore nuovo ma di amato nuovamente, rinnovo d’emozioni su di una scala di possibilità (maggiore o minore) provocate in due. E su questa scala si arrampica l’inganno di provare un’emozione nuova più intensa o minore che ci perseguita a trovare una ragione. Così l’amore lo portiamo dentro come possibilità/necessità di dare/darsi. Su questa scala intaccata dal primo giorno, tempo che porta in se il momento massimo d’amore in cui tutti si è immersi senza difese. L’amore diventa la madre e la madre diventa la natura tutta a cui si è legati e si è poi negati. La rincorsa verso ciò che ci nega diventa più forte di ciò che ci accetta perché risulta a noi più vicino all’esperienza della nascita. Si tratta ora di capire quando avviene l’incontro, l’unione che apparentemente non ha nulla a che fare con questo caso e che chiameremo l’unione d’amore nuovo. Per quanto detto l’amato nuovamente risulta più facile in quanto meccanismo già innescato e riconosciuto dall’esperienza traumatica della nascita.[…]
Giovanni Ricciardi:
Pittore, nato a Castellammare di Stabia (Na) nel 1977. Dal 2003 vive e lavora a Milano. Inizia la sua attività espositiva a Napoli dal 1995, sono gli anni in cui frequenta l’accademia di Belle Arti, luogo di incontro/scontro di idee, progetti, concretizzati in un momento di grosso fermento e sperimentazione artistica. Espone successivamente in sedi istituzionali di rilievo in Italia e all’estero tra cui: Napoli (Museo Nazionale, Museo Pietrarsa, Convitto Nazionale), Milano (Fondazione Stelline), Roma (Palazzo delle Esposizioni), Iraq, Baghdad (Accademia irachena), Giappone (Museum of Modern Art di Saitama).
Nel 1998 è invitato da Alik Cavaliere ad esporre alla Fondazione Stelline di Milano. Viene in contatto con Emilio Tadini, Baj, incontra cosi tutti quelli che sono gli ultimi maestri di un ineguagliabile periodo artistico e intellettuale italiano. A Baghdad nel 2002 presso l’università Irachena delle belle arti, lancia il primo atto del suo progetto “Steady Link Project”, un insieme di performances e istallazioni tuttora in sviluppo.
La sua prima personale arriva nel 2003 “L’inganno dei Sensi” alla galleria Ma di Napoli. Già dal 2001 si accosta alla Patafisica, partecipando a Patafluens (Casalmaggiore), incontro internazionale di Patafisica, a quel tempo ancora sotto l’alta direzione di Enrico Baj. Viene in contatto con il Collége de Pataphisique di Parigi, dove si reca costantemente. Nel 2007 gli viene conferita la nomina di Patafisico dal Rettore dell’Istitutum Pataphysicum Partenopeo di Napoli, Mario Persico.
Nel suo percorso artistico a distanza di poco tempo si nota un notevole cambiamento di stili, impostazioni pittoriche, una continua ricerca di forme ed espressioni nuove… Ma non crede che ormai il secolo scorso abbia espresso tutto la sua potenzialità e che gli artisti contemporanei ormai attingano a piene mani da quelle fonti e fondamentalmente non dicono e non esprimano niente di veramente nuovo?
Sono sicuro che per le necessità del tempo, siano state espresse tutte le potenzialità da parte di artisti e intellettuali vissuti come dice lei “nel secolo scorso”. Per questo nuovo millennio carico di nuove istanze globalizzate i discorsi saranno differenti. Non amo fare distinzioni di “secolo”, quanto pensare alle distinzioni sulle necessità e i contesti epocali degli artisti. Sicuramente gli artisti, gli operatori culturali hanno una eredità da valutare e superare. Credo che il cammino dell’arte non sia fine a se stesso come spesso sento dichiarare, ma che viaggi di pari passo con l’evoluzione delle idee e delle possibilità che man mano si fanno sempre più ampie. Come artista che “ancora” dipinge e muove materia rimango catturato dai nuovi media tecnologici a disposizione, così come tanti rimasero catturati negli anni ’50 dal vero e proprio “medium” della tela stesa sul pavimento scoperto/inventato da Jackson Pollock, dove l’artista poteva “immergersi” ed avere un senso “dell’esserci” più completo, o dopo il taglio di Lucio Fontana che apriva non un taglio solamente sullo spazio ma sulla dimensione spazio-tempo.
Oggi l’esperimento artistico-mediatico più interessante a disposizione rimane l’applicazione virtuale tesa ad assorbire sempre di più i sensi e il grosso dilemma spazio/tempo.
Il suo ricercare, anche con manifestazioni artistiche che esulano dal lavoro pittorico, mi riferisco alle sue performace-installazioni, e dopo il suo trasferimento a Milano anche con le sculture, sono il segno che la pittura non le basta più o è una sottile operazione commerciale per aumentare la sua offerta artistica e porsi con più prodotti nel variegato mercato dell’arte?
Credo sia proprio nel passaggio tra i mezzi la risposta contemporanea, nel verificare le cose e i contenuti in ambiti diversi. Tanti artisti sentono la necessità di volare dalla pittura all’istallazione, dalla fotografia alle applicazioni virtuali. La cosa che si trascura troppo spesso è proprio il contenuto di un messaggio, di un percorso che anche se appartentemente sfugge all’occhio mantiene sempre una matrice sotterranea alle produzioni. Io personalmente, sto verificando da anni il vuoto, l’assenza e il contrasto di me stesso al mondo. Ho iniziato ultimamente a scrivere un piccolo testo teatrale patafisico, un altro canale di sperimentazione sulla ricerca che sto percorrendo. Il riscontro economico dell’arte è indubbiamente interessante e indispensabile alle produzioni, in troppi casi trovo che le quotazioni aumentino troppo e troppo velocemente.
Lei ultimamente è stato insignito del titolo di Patafisico… Non crede che questa “corrente” scimmiotti un po’ le avanguardie, futuriste, dadaiste o l’arte di Jean Tinguely?
“Patacontaminatore semiotico e inventore di servomeccanismi…” é la mia nomina patafisica avuta dall’istituto patafisico partenopeo lo scorso maggio in occasione del primo raduno patafisico partenopeo. Un grande festival tenuto sul Vesuvio presso Fiume di Pietra e curato da Paola Acampa, sulla grande “scienza delle soluzioni immaginarie possibili” che sin dalla fine dell’800 con il suo creatore Alfred Jarry fa decervellare i migliori accademici mondiali per la sua insita inconsistenza.
Alla manifestazione era presente il Trascendente Satrapo Thieri Foulc del Collège de Pataphisique di Parigi. Sullo scimmiottamento della patafisica sulle avanguardie direi che, incoscienti del fatto, i più grandi patafisici della storia siano stati ancor prima: Bosch, Goya, Leonardo.
Oggi compie 30 anni… Come definirebbe con tre aggettivi il suo lavoro passato?
Necessario, ingombrante, passato.
Dove va Gianni Ricciardi?
…A Tokyo. A luglio espongo al Museo di arte moderna di Saitama.
Quali sono i suoi progetti imminenti?
Questa grande mostra collettiva voluta dal curatore Yokozawa Yoshitaka arriva in un momento per me importante in quanto la mia ricerca artistica, che per anni ha visto tante direzioni espressive diverse, finalmente trova stabilità in questa serie ultima che ho chiamato “Bit”.
Quali quelli futuri?
Comprare una fazenda in Brasile e via…
Una meravigliosa notte ho passato, ma fuori un freddo che non lascia tregua a chi non ha avuto per la sua notte un adeguato riparo.
Ebbene oggi sono sveglio anche se tardi perchè cullato dal sonno ma ho seguito il mio tempo e la mia notte con passione, oggi sono più sveglio e nel mio risveglio sento di porre un punto e soffermarmi su pochi…pochi pilastri della mia vita che in questi giorni aggiunti, carichi del loro tepore mi ricordano la fine del mio 30° anno solare. Per chi come me vive nello stesso momento ancorato e distante il tempo, credo fortemente imprescindibile riconoscere tanto alle persone che mi hanno permesso di ritrovarmi oggi con il mio bagaglio sempre pronto. Oggi sono pronto più che mai a ripartire in ogni luogo e rinnovare uno spirito che per quante volte non mi ha dato tregua solo Dio lo sa. Non è stato facile gestire fino ad oggi un’anima viziata e insaziabile perché del bello di cui si è nutrita ne ha vissuto voracemente sconfinando gli argini e andando oltre i limiti spesso verso l’insofferenza.
Primo e secondo pilastro su cui ho edificato il tempio della mia serenità lo devo a mio padre e mia madre. Che l’uno e che l’altro siano stati i cardini su cui ho potuto aprire le porte al mondo serenamente lo grido forte. A loro due, pilastri su cui ho poggiato il grande architrave della mia serenità. Agli infiniti sorrisi leggeri come il vento di mia madre a ricordarmi la purezza dei cieli che ritrovo nei giorni sereni, per tutti i miei futuri giorni oscuri mi ridaranno il sole. A mio padre, mio primo maestro, con cui mi sono ritrovato in spazi talmente vasti da annullarmi e ricompormi mille e mille volte. Rotolando nella sua materia imponente e massiccia, eppure leggera come un soffio d’immortale anima vitale. Tra i suoi colori e le sue sculture mi sono sdraiato, ho respirato, ho mangiato al suo desco ogni minuto della mia vita. A lui devo questi carboni accesi, fuoco sacro che mai si estingue, come i pesci che nel mare mai potranno fare a meno delle loro pinne. Non è solo un ricordo, ogni giorno continuo a vivere ancora quelle mie piccolissime mani che muovono il colore sulle piccolissime tele in quella Portici dove a giocare nello studio di mio padre intravedevo il paradiso e lo dividevo dall’esterno dei viali di periferia. Ed il mondo mi si apriva tra le mani ed io già capivo, ancora ricordo, erano gli anni ottanta. Da allora in poi quanti istanti si sono rivelati eternità e il tempo si è dilatato dentro di me a scandagliare, scoprire, imparare a danzarci sopra in mille ritmi affrontati con sfida, amore, testardaggine fino ad arrivare al terzo pilastro della mia vita.
Millenovecentonovanta e il mondo si riapre, si dilata sempre di più in un giornaliero alimentare la forma e il colore, pensavo spesso non sarebbero bastati altri millenovecentonovanta anni per trovare il “mio” colore, il mio “tono”, così come tutti ne possiedono di sicuro uno nella vita. Quei quattro anni li ho vissuti tutti in quel meraviglioso liceo artistico dei S.S. Apostoli di Napoli dove il mio maestro amato Errico Ruotolo era il mio faro in quella iniziazione tecnica e sull’arte. Con lui le mie prime matite consumate fino ad avere i crampi alle mani, le decine di tagli alle dita affilando le punte, le gomme pane ad asciugare il sudore che si ammassava incessantemente su carte e carte. Le centinaia di disegni appesi al muro nel giornaliero ritorno dalle ore di liceo su cui continuavo a lavorare senza più muovere le mani…parlavo per ore con mio padre di quel mondo scoperto ed esplorato quel giorno. Così per anni, carboni finiti, tempere finite, pastelli finiti, matite, quante matite…
Millenovecentonovantacinque in accademia con il maestro, fortemente voluto, Gianni Pisani, a lui il quarto pilastro (confesso che un po ci ho pensato) Ero giovane, molto giovane, quando mi si avvicinava e mi avvolgeva il profumo della vera vita, quella fatta anche di solitudine, di ricerca a livelli più articolati nell’ignoto interiore tutto da scoprire. Mi sembrava di dover vivere quel passaggio obbligato nell’arte di fine ottocento quando dall’impressionismo si contrapponeva l’esigenza imperiosa di rivestire la realtà della propria ragione interiore. Così gli anni accademici sono stati il tramite con il quale mi sono ritrovato nella vita, ma anche nella vita meschina, fatta di competizione, di sgomitate, di furbizie per ritrovarsi vivo e salvare la pelle nella giungla che in quegli anni aveva solo le sembianze di quell’enorme palazzo di Via Costantinopoli. Al mio terzo maestro dunque, che mai ci ha insegnato a “fare” bensì ad “essere”. Solo dopo anni ho apprezzato il suo modo di essere maestro in accademia, non è stato facile. Ricordo momenti duri davanti quella tela bianca di cui tutti avevano timore, in qualche modo riuscivo sempre a non farmi mai intimorire ed iniziava a fluire così un mondo nuovo tutto da seguire…e inevitabilmente…tutto da iniziare a cancellare. Da li un gioco sottile di pieno e vuoto si insinuava sotto le mie tele, appesantire e alleggerire continuamente come l’equilibrio instancabile della vita. Iniziavo a cancellare le cose che sapevo già fare, ho sempre odiato portare troppo peso con me in giro. Le prime partecipazioni alle mostre mi aprivano una finestra sul mondo nuova perché tanto distanti dalle umidità degli studi, dalle grida mai uscite da quei luoghi dove mai nessuno potrà conoscere e scovare i tempi vissuti e percorsi. Con l’arrivo imminente del terzo millennio mi si aprivano davanti le strade sul vuoto avevo terminato l’accademia già da tre anni e Napoli era un vuoto culturale assoluto, a fatica ci si poteva muovere tra gallerie che su modelli che non ci appartenevano mimavano una certa attività espositiva su di una città morta o svenuta da decenni.
Duemiladue e il quinto pilastro lo dedico alla galleria Marciano arte di Portici alla quale devo tanta riconoscenza e non meno qualche turbamento per i miei primi distacchi dalle opere. Turbamenti che non immaginavo si sarebbero poi risolti da lì a poco, le prime vendite erano euforiche e atroci allo stesso tempo. Per un artista, di come una perdita profonda possa convivere con una gioia intensa ancora non lo saprei spiegare. Era un lavoro quotidiano completamente immerso in quegli anni, mattina e sera senza sosta, spesso continuavo la notte in quella grande stanza che avevo oramai fatto mia da molti anni, nello studio di mio padre. Profumi di muffe, polvere e odori fortissimi di pittura ad olio ho respirato instancabilmente con una passione che solo il ricordo mi fa tornare un fremito. Nel fremito ho vissuto quel silenzio dello studio di Villa Battisti ad Ercolano, chiuso per ore ed ore fumando decine e decine di sigarette io e i miei quadri, il mio meraviglioso cavalletto come quelli dell’accademia. Era il paradiso, fuori era l’inferno ed io al centro mi muovevo benissimo. Non ho mai amato tanto il mondo che gira intorno all’arte, ho sempre preferito pensare ad altro. Avevo qualche soldo per poter lavorare in pace e Marciano che dimostrava tutta la sua fiducia, prendeva un quadro al mese, disegni ed io stringevo il mio mondo tra le mani.
Nel duemilatre parto per Milano, carico, carichissimo ma senza valige, a mani vuote prendo una piccola borsa, i miei colori (perché a Napoli costavano meno) e parto. Milano non era di certo la città a cui più aspiravo, lo era Parigi alla quale già da un decennio ero legato, ma in quel momento mi sembrava troppo lontana, in fondo, devo accettare una certa pigrizia che mi contraddistingue e in quel tempo ho dovuto fare i conti con la voglia di trovare un punto strategico. In fondo se c’è una cosa che amo di Milano è la possibilità di muoversi in Europa, nel mondo come se niente fosse e, per quelli come noi che per fare sette chilometri (Napoli-Portici) ha aspettato per anni nella propria vita anche 180 minuti un autobus (filobus 255 A.T.A.N.) è certamente un grande salto di qualità. Benvenuto a Milano mi dissi, da solo, perché non conoscevo nessuno, poggiando la mia unica valigia nella stanza vuota arredata solo di un materasso e un armadio. Ricordo il rumore che fece la borsa sul pavimento come inizio di quel periodo. Sesto pilastro dedicato a milano allora, ma soprattutto all’unica donna che, così come conosco e vivo incessantemente la passione per l’arte, ho amato senza sosta per tutto il tempo seguente. Nella vita un amore e una passione che riesce ad aprirti l’anima in due, vera o non Vera che sia, non va mai rinnegata, mai rinnegherò.
E’ nel settimo pilastro ultimo e non “ultimo” di questo ciclo di trenta anni che voglio qui chiudere, con un bene che non trova parole per Simona mia sorella, mia calma e certezza di poter condividere sempre tutto nella vita. Presenza inamovibile nella mia mente, per sempre dentro e fuori di me ovunque io vada.