Autore:RICCIARDI GIOVANNI
N. - M. :Castellammare di Stabia, 1977
Tecnica:Olio su tela
Misure:60 x 80 cm
Anno:2012
Classificazione: Moderni, Oli, Figurativi, Paesaggi
Giovanni Ricciardi pittore si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Napoli nel 1998. Le prime esposizioni sono del 1992, appena quindicenne. Vive a Milano dove insegna e continua nella sua ricerca pittorica. Sue opere si possono ammirare in permanenza presso la Galleria Marciano Arte a Portici (NA).
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“Giovanni Ricciardi pittore, con rinnovata insistenza, mette a nudo quotidianamente i suoi progetti affidandoli ad una lucidità che, contro la teatralità attuale del monologo, diventa sempre più portatrice di pezzi di verità nel coro dissonante in cui alla fine si ritrovano i suoi coetanei. A rendere importante la sua ricerca è, la precisione delle scansioni cromatiche asciugate al massimo da schematizzazioni in forme sempre più persuase e morali. Forme moltiplicate con rinnovata insistenza del suo farsi protagonista, nel lucido gioco di atmosfere da coralità sospesa. In una serie di scene che una concretezza non sottrae alle indicazioni ed al richiamo di particolari che già da lungo tempo gli appartengono, spesso facendo in modo che le immagini non restino una rappresentazione, ma una interpretazione assolutamente lineare che ci scorre davanti. Una sfida di gestualità ai propri moduli, per un racconto che si concentra e riunisce brani espressivi, anche come cronaca oggettiva, seguendo una ricerca continua in un sistema di echi e di contrappunti cromatici, che portano, nel gioco di diversificanti tonalità, nuovi cardini alle realizzazioni”.
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Inizia la sua attività espositiva a Napoli dal 1995, sono gli anni in cui frequenta l’accademia di Belle Arti, luogo di incontro/scontro di idee, progetti, concretizzati in un momento di grosso fermento e sperimentazione artistica. Espone successivamente in sedi istituzionali di rilievo in Italia e all’estero tra cui: Napoli Museo Nazionale, Museo Pietrarsa, Convitto Nazionale), Milano (Fondazione Stelline, gallerie private), Roma (Palazzo delle Esposizioni), Boston, Iraq, Baghdad (Accademia irachena), Parigi, Tokyo, Boston, Santiago del Chile, Istanbul (Museum of Modern Art di Saitama). Nel 2008 Espone in una mostra tenuta al Castel dell’Ovo più di cinquanta opere tra quelle dei suoi primi dieci anni di ricerca pittorica. Molto giovane, nel 1998 è invitato da Alik Cavaliere ad esporre alla Fondazione Stelline di Milano. Viene in contatto con Emilio Tadini, Enrico Baj, incontra cosi tutti quelli che sono gli ultimi maestri di un ineguagliabile periodo artistico e intellettuale italiano. A Baghdad nel 2002 presso l’università Irachena delle belle arti, lancia il primo atto del suo progetto “Steady Link Project”, un insieme di performance e installazioni. La sua prima personale arriva nel 2003 “L’inganno dei Sensi” alla galleria Ma di Napoli. Si interessa e scrive di saggistica e sociologia dell’arte. Nel 2003 gli viene affidata la direzione artistica di “Mare dei Popoli”, periodico di ricerca estetica e cultura dei popoli arabo-islamici, pubblicato a Napoli (Edizioni Ritualia). Nel 2001 si accosta alla Patafisica, partecipando a “Patafluens”(Casalmaggiore), incontro internazionale di Patafisica, a quel tempo ancora sotto l’alta direzione di Enrico Baj. Viene in contatto con il Collège de ‘Pataphysique a Parigi dove si reca costantemente. Nel 2007 gli viene conferita la nomina di Patafisico dall’Istitutum Pataphysicum Partenopeo di Napoli. L’8 dicembre 2008 a Milano, fonda insieme ad un gruppo di artisti, l’Autoclave di Estrazioni Patafisiche, nuovo centro studi patadiagnostici mediolanensi, di cui viene eletto Reggente Patastrofico, riceve le importanti nomine dal Collège de Pataphysique, quale Anfiteota Propagatore del Collège e Commendatore Squisito dell’Ordine della Grande Giduglia, l’ordine ufficiale francese che ha visto insignite nella storia personalità come Marcel Duchamp, Joan Mirò, Juan Gris, Pablo Picasso.
1998
Leggende e storia nella nascita di una città
Fondazione Stelline
Milano
1997
Alta Bassa Marea
Palazzo della cultura Victor Hugo
Avellino
2018
Home
Spazio Hus – Milano
2010
Zeitgeist – Lo spirito del tempo
DomusArtis Gallery
Napoli
2009
Tutto nel Nuovo/Tutto di Nuovo
Castel Dell’Ovo
Napoli
2003
Pause&Pause
Museo Archeologico di Villa Arbusto
Ischia Napoli
2002
L’inganno dei Sensi
Galleria Movimento Aperto
Napoli
2002
Steady Link project, performance/istallazione
Performance Convitto Nazionale
Napoli
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L’incessante ed ossessiva ricerca di trovare un punto intorno al quale ricomporre la frantumazione dell’Io per cogliere le ragioni profonde del suo essere nel mondo, è la costante della ricerca del Ricciardi pittore tra il 1995 e il 1997.
Le opere di piccolo formato, in cui alla libertà del colore si accompagna il rigore del segno per volgere ad esiti di sottile eleganza formale, sono testimonianza di un percorso artistico, che per quanto agli esordi, già mostra i segni di una ricerca, sia in termini di contenuti e di linguaggio, seria e consapevole. Una convinzione del suo fare artistico, quale strumento di una conoscenza oltre i limiti dell’umano, che spinge il Ricciardi pittore a misurarsi con spazi più ampi senza tentennamenti e con quel distacco di chi è consapevole che la vita è solo un viaggio verso quella libertà assoluta cui anela l’uomo.
Nella trilogia dell’essere, il processo di elaborazione delle forme e dell’espressione, che nella nascita e nella vita si rivela attraverso elementi atti a evidenziare l’inconsistenza corporea dell’essere (i pantaloni svuotati, i peli sono segni di perdita), trova, un momento di grande e controllata tensione nella morte. Qui Ricciardi pittore attraverso una elaborata e controllata architettura della tela accompagnata da una stesura attenta e misurata del colore, (che prende consistenza materica nell’inserimento dell’oggetto, un libro combusto) ribalta i termini stessi dell’esistenza, trovando nella morte, come rivelazione del non conosciuto, il significato più profondo dell’esistenza.
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“…misero, misero in assoluto è l’anonimo crocifisso alla sua storia negata”.
Ha senso la distanza dal suolo, l’essere sollevati, levati come tolti, sottratti, con decisione volontaria alla terra delle radici per inclementi necessità o per l’esilio imposto quando non si conciliano la legge iniqua e il diritto, le scelte democratiche e le pressioni coercitive.
Il discorso è decisamente sociale, d’arte impegnata a comunicare, nell’immediatezza dell’evidenza, come la perdita delle radici possa distinguere nello spirito chi accetta di perdere l’appartenenza alla propria cultura, quella che fa d’ogni progenie, a tutte le latitudini, una stirpe incrollabile (genos asaleuton). Ricciardi pittore, sensibilissimo interprete del colore, immedesimato, più che preso dunque, immerso pensosamente nelle tematiche delle trasformazioni, quelle che ci fanno mutanti nel nostro tempo dell’incertezza e del progetto in itinere, ha realizzato un’originale, forte, Performance/Istallazione di suggestiva pregnanza: l’azione coniuga appieno ethos e aisthesis, eticità e valori estetici. Ho usato l’espressione “disintegrare nello spirito”, tenendo conto che dis (come male, non bene) -integrare, sottolinea il dramma di un’accettazione a “far parte” in cui, come tabula rasa, c’è chi si spoglia di ciò che è veramente suo e alla deconnotazione corrisponde la “garanzia” di un super strato che nega la storia, soprattutto a chi non ne ha ereditato l’orgoglio.
Tre è numero perfetto, indica il moto, la comunicazione tra distanze opposte, segna la minima concreta geometria: è sacro all’oriente e all’occidente, da dove sorge a dove declina il sole al tramonto; Tre sono i protagonisti dell’evento d’arte che Ricciardi Giovanni ha messo in posa. Li ha scelti alti, li ha forniti di sgabelli adeguati a rendere netto e organico il divario di “statura” : cm 2,20; cm 2,60; cm 2,40; ecco come apparivano sui loro “podi” , come elevati dal suolo erano nella tragedia greca gli attori che rappresentavano le divinità chiamate in causa.
Gli sgabelli erano coperti dalla tunica che aderiva al pavimento, al suolo, alla terra ovunque, per dirla metaforicamente: Ricciardi Giovanni ha realizzato dei tagli particolari sulle candide vesti dei suoi protagonisti: ha sagomato con tre tagli netti delle probabili tasche, delle finestre con tendina, cinque per il primo personaggio, si badi bene bendato; cinque per il secondo personaggio, con gli occhi liberi; tre per il terzo personaggio, anch’egli senza benda.
Dalle tasche/finestre aperte sulla tela, di sotto la socchiusa pattina, venivano fuori degli eloquenti cordoni ombelicali come strisce segnaletiche zebrate: bianco e blu notte. Il blu della memoria che non sbiadisce, in siglato percorso, come saldo tentacolo, si annodava alle pietre sparse al suolo: dalla terra madre la radicata memoria, le pietre della storia che quanto più gli uomini tacciono, tanto più sono eloquenti.
Ahimè, l’uomo bendato, pur avendo ben cinque possibili legami a disposizione, non li aveva ancorati a nessuna parola d’identificazione: se le parole sono pietre d’angolo nella tradizione, le aveva perdute tutte: era senza vista ed estraneo al suo passato-presente che s’infutura.
Era nel progetto di un’altra volontà, massificante ed ostile alla diversità che fa più ricca la cultura intesa come spazio comunicante.
A rendere più avvertita la condizione di distanza dalla madre terra, prima che avessero indossato il candido saio del pellegrino viandante per necessità , l’artista aveva legato le mani dei suoi protagonisti. Li aveva indicati separati anche dai loro saperi, dal loro saper fare e quindi destinati, almeno in partenza, ad umili mestieri, ad un degrado estraniante che solo la memoria e la certezza identificativa del retaggio tradizionale poteva alleviare.
Giovanni Ricciardi pittore ha sottolineato una delle più tragiche “metamorfosi” del nostro tempo. Una trasformazione massicciamente estesa, che l’artista denuncia mentre depreca la deconnotazione massificata minacciata dall’incombente globalizzazione.
La “prima tappa” di questa lezione d’eticità ricca di valori estetici, che merita degni approdi in itinere con adeguati contributi di esperti di comunicazione e di didattica, ha avuto fortunato riscontro all’Università di Baghdad, durante una conferenza nella quale, senza peli sulla lingua, anche le tematiche richiedevano una propositiva e particolare delicatezza, si è parlato di necessità di comprensione tra i popoli e di libertà culturale che va oltre la tolleranza perché si apre alla comunicazione, alla convivenza con le identità e le diversità. Mi sono trovato a parlare del dovere di valorizzare le culture, le radici culturali dei popoli, fondando il dialogo interculturale sugli archetipi comuni, incorruttibili, sul valore primo: La vita, sulle nuove frontiere dell’esistenza, comprese le rilevanti riflessioni sulla bioetica.
Più convincenti delle parole, insufficienti di per sé, e per giunta trasferite da una lingua all’altra (per cui altri meriti vanno riconosciuti al traduttore, al prof. Malik Abrah, interprete d’eccezione, saggio e sagace a sigillo di una cultura aperta a misura della sua umanità e sensibilità di poeta), sono state le modalità dell’happening/Istallazione del giovane Ricciardi pittore.
L’aggettivo vale a dar senso alla sua forte creatività che nasce dal saper vedere, dall’entusiasmo con cui partecipa agli eventi: è vero, ha più pratica del mondo non chi vi ha più vissuto, ma chi vi ha più osservato. Ricciardi pittore è stato bravo anche a siglare della sua segnaletica memoriale una spalla, un lato, dei suoi personaggi, così come citati nell’ordine recavano le strisce segnaletiche oblique, a sinistra, a destra, a destra. La spiegazione è logica: Le bende non consentono di andare verso la luce: La destra, de astro, segnala oriente; la sinistra sine astro, segna l’occidente, il tramonto definitivo della civiltà di chi rinuncia alle radici.
A Baghdad, la mia lettura della realizzazione artistica che si stava svolgendo sotto gli occhi del pubblico interessatissimo è stata sintetica, lo esigevano i tempi e le difficoltà di traduzione simultanea. Faccio ora ammenda e mi pare di non aver dimenticato nessun particolare nella proposta interpretativa. Chissà quanti altri stimoli potrà accendere l’evento in oggetto che andranno ad arricchire il repertorio dei consensi: L’arte comportamentale è bella anche per questo, intanto, dulcis in fundo, mi sono riservato di riferirmi al titolo, proprio nelle conclusioni; è singolarmente appropriato: Steady Link.
Preferisco le maiuscole: Steady Link; cresce infatti dentro e si nutre dei sogni che accendono il pensiero nell’universo dei desideri, tanti talvolta anche appagati negli anni di assuefazione altrove. Quando l’appartenenza, che germina andando “verso” insieme, rende sbiadite le diversità, resiste inconciliato. Né vale il gesto audace d’Alessandro a Gordio a recidere quel legame stretto indissolubilmente tra l’essenza di un uomo e le radici ereditate dal materno seno.
Il viaggio alla speranza, oltre alla decisione dell’esilio, voluto per necessità o subito per amore di libertà, potrebbe frastornarsi tra le migliaia di luci sommate alle migliaia, tra le dovizie di Bengodi dov’è a buon prezzo la cuccagna e l’allegria fasulla spreca e sperpera, ma, in fondo alle pupille, brilla l’orgoglio delle memorie care: Steady Link. S’accende proprio in fondo alle pupille, dove nessun provetto indagatore potrebbe scovare il bambino che stilla da uno specchio di carne che ama e sorride: grande, incommensurabile è il conforto di quell’anello che non si dissalda, forte più del cordone ombelicale che pure è miracolosamente più fermo appena reciso: La separazione misura l’appartenenza nei sentimenti forti e nei pensieri.
Steady Link celebra drammaticamente il viaggio di Enea, non di Ulisse, che la svolta epocale in atto ci impone. Il viaggio è ineludibile nel tempo dell’incertezza, com’è irrinunciabile la tutela della diversità che arricchiscono il convivio nel quale non si consumano i valori.
Dove globalizzazione vuol dire massificato consumismo e negato superamento dei bisogni elementari, cioè il diritto alla vita, la violenza sistematica sottrae natura, storia, civiltà, identificazione. Giusto è apprendere il canto delle radici, serbarlo senza lacune, intatto, soprattutto quando le obbligate distanze fanno volare la nostalgia alle lontane terre amare e belle.
Il II atto di Steady Link project è stato realizzato presso il Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II di Napoli lo scorso 24 giugno 2002.
Giovanni Ricciardi pittore: “In questa seconda tappa è lo “scambio” ad essere protagonista, nella continuità ciclica del recupero delle tradizioni e delle conoscenze umane”. La performance è stata realizzata grazie alla partecipazione di una delle più importanti e anziane danzatrici di “tammorra” (ballo folklorico vesuviano) Chicchina Abate e dal ballerino Antonello Tudisco.
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Negli ultimi decenni il ventaglio delle alternative che si aprono alla ricerca artistica sembra essersi enormemente allargato. Il quadro dei linguaggi e delle tecniche tradizionali, per quanto sconvolto all’inizio del Novecento dall’irruzione delle cosiddette avanguardie storiche, ha continuato ancora a lungo a presentarsi, agli occhi dei conservatori e degli innovatori, come l’unico sistema di riferimento, come un banco di prova storicamente insostituibile. Terreno comune di confronto, dunque, anche quando se ne negava la centralità o si avanzavano propositi di sovversione. Tuttavia, già qualcuna delle prime avanguardie – e segnatamente il Futurismo e il Dadaismo – aveva indirizzato il raggio della propria ricerca oltre i confini di quel sistema e aveva aperto un varco al passaggio dallo spazio “separato” dell’arte allo spazio della vita. E’ stato, però, solo con la seconda metà del Novecento che le varie pratiche di “sconfinamento” e di esteticità diffusa hanno dato vita a una vastissima e multiforme produzione di performance e di happening, di interventi negli spazi urbani e nel paesaggio, confluendo, infine, in un unico evento spettacolare entro cui sfuma la distinzione tra dimensione virtuale e mondo reale.
Confinate in una condizione di marginalità rispetto ai circuiti dei mass media e alla diffusione invasiva delle immagini prodotte dalle nuove tecnologie, le arti visive tradizionali si sono illuse di poter superare tale condizione, aprendosi al flusso dell’immaginario elettronico e della spettacolarità e accogliendolo come totalità indistinta, come realtà ridotta ad apparenza assoluta e perciò stesso “mondo vero”, divenuto nietzscheanamente favola, entro l’orizzonte di una civiltà esposta senza ripari alle leggi del mutamento e del consumo. In una società che “è diventata una mostra, un’esposizione pubblicitaria che è impossibile non visitare, perché comunque ci stiamo dentro”(G. Anders), il sogno delle avanguardie di liberare l’arte dalla sua storica “separatezza” e riconciliarla con la vita si è banalmente tradotto nell’estetizzazione universale delle merci, nell’offerta, distribuita attraverso i circuiti del mercato e della pubblicità, di una qualità estetica per tutti o, se si preferisce, di un nuovo genere di “bellezza aderente”.
Non è certamente questo il luogo per tentare una trattazione approfondita ed articolata di un argomento così complesso. L’accenno che se n’è fatto vuole suggerire come proprio la fluida, mobilissima ed illimitata ampiezza d’orizzonti in cui sembrano muoversi oggi i percorsi della ricerca artistica costituisce in realtà un dato estremamente problematico e indurre a considerare, perciò, con grande interesse quei giovani che, rifiutando le ormai noiose chiacchiere sul nomadismo postmoderno, con la sua disinvolta pratica di attraversamento dei linguaggi dell’arte, e diffidando degli inviti ad accettare le regole del carnevale mediatico in cui saremmo tutti irrimediabilmente immersi, cercano, invece, di dare alla propria esperienza artistica un ancoraggio più stabile. E’ questo il caso di Ricciardi Giovanni. Nelle opere che egli espone nella sede dell’associazione Movimento Aperto c’è il segno della compattezza d’insieme raggiunta mediante un lavoro paziente di aggiunte e di passaggi, di modulazioni e di arricchimenti condotti con esplicita curiosità sperimentale, ma sempre gravitando intorno ad un saldo nucleo espressivo iniziale. Ne risulta la sensazione di una coerenza che non è astratta identità formale né generica uniformità di modi linguistici, ma passa attraverso diversi gradi di eterogeneità, riuscendo infine a saldare nell’unità dei nessi percettivi e semantici la pluralità delle materie, degli oggetti e dei segni che l’opera chiude nel suo perimetro.
Il pregio maggiore dei lavori di Ricciardi pittore, strettamente legato al rapporto tra la qualità sensibile dell’immagine e l’alone di senso che intorno ad essa s’addensa, sta forse nel modo in cui l’ariosa geometria dello spazio, interrotta da improvvisi sussulti timbrici, s’accorda con la visione di orizzonti lontani, di paesaggi mediorientali e di allarmati segnali di guerra, e le luci e le ombre, tra la città e il deserto. Le icone, però, si possono assottigliare fino a toccare la trasparenza del simbolo o acquistare l’opaca consistenza dell’oggetto. Ma la materia, modellata sempre con un amore vivissimo per la definizione preziosa del particolare, trapassa subito nella leggerezza della forma. Si sente anzi circolare, in queste opere, una singolare atmosfera fiabesca, che sembra nascere dal fascino discreto di alcune figure floreali e dalla delicatezza di assottigliate stesure cromatiche.
Ricciardi predilige le cadenze piane, distese, e rivela una naturale disposizione alla lineare chiarezza delle strutture. Queste, infatti, non rimangono nascoste al di sotto del livello iconico, ma, portate alla luce, coincidono col rapporto, tutto dichiarato sulla superficie, che i vari elementi della composizione intrattengono tra di loro. Si può dire, allora, che nelle opere di Ricciardi Giovanni non c’è divaricazione tra figuratività e astrazione, poiché questa altro non è che il respiro unitario della varietà delle cose, il segno dell’ordine cui esse aspirano. Ricciardi pittore, come s’è detto, non ama abbandonarsi alla deriva dell’estetismo consumistico né lasciarsi coinvolgere nel flusso della spettacolarità. Egli intende l’arte come il momento in cui dalla discontinuità dell’esistente si vede affiorare la misura di una regola, sospesa tra l’ideale trasparenza della geometria e l’enigma apparente della scena onirica.
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