Autore:anonimo
N. - M. :Napoli, Sec. XIX
Tecnica:Gouache su carta
Misure:34 x 45 cm
Anno:1847
Classificazione: Paesaggi, Gouaches, Figurativi, Marine, Antichi
Questa gouache originale del XIX secolo raffigura l’eruzione del Vesuvio del 1847 in una composizione imponente, con il vulcano che domina la scena tra fumo e lava. I personaggi sembrano mostrare stupore, meraviglia ed emozione anziché preoccupazione. Lo stile e i colori tipici delle gouache napoletane, intensi e delicati allo stesso tempo, enfatizzano la tensione tra distruzione e tranquillità, tra dramma e spettacolo. Nonostante la mancanza di firma, questa gouache è un esempio significativo della tradizione pittorica napoletana, che ha immortalato il Vesuvio in numerosi dipinti per soddisfare l’interesse dei viaggiatori del Grand Tour. La sua potenza visiva e la sua capacità di evocare emozioni forti la rendono un’opera di grande valore artistico e storico, conservando sempre e comunque la stessa freschezza cromatica nonostante il passare del tempo.
[…] Con le guerre napoleoniche i connotati del Viaggio in Italia subirono progressivamente tutta una serie di cambiamenti, e ciò valse, ovviamente, anche per Napoli e per i suoi dintorni. Fino alla restaurazione, infatti, i soli viaggiatori che vennero a Napoli, salvo rare eccezioni, furono quelli francesi, perché per ovvi motivi gli Inglesi e i Tedeschi si tennero ben lontani dalla nostra Città. Solo quando il Regno borbonico fu liberato dal dominio francese per mezzo del massiccio intervento della flotta inglese, si ebbe finalmente l’arrivo dei nuovi viaggiatori romantici, provenienti da ogni parte d’Europa. A quel momento, dunque, bisogna far risalire l’inizio di quella fortuna turistica che insieme a Napoli interessò finalmente anche Sorrento, Amalfi e le Isole, pur se essa non fu soltanto determinata dal crollo dell’Impero napoleonico o dal manifestarsi della nuova sensibilità romantica, bensì anche dal coinvolgimento della grande e media borghesia nel fenomeno del Grand Tour e dalla realizzazione di una prima serie di servizi utili per rendere più comodi i trasferimenti e i soggiorni. […] Napoli, in particolare, a partire dalla restaurazione borbonica divenne un teatro privilegiato dell’immaginario romantico e le gouaches di quell’epoca, viste oggi, sembrano quasi costituire una sorta di catalogo dei temi prediletti dai Viaggiatori di quel tempo, il Vesuvio, Posillipo, Mergellina, la Villa reale, la grotta di Pozzuoli, S. Lucia, il Chiatamone, il molo con l’Immacolatella, le strade nuove di Capodimonte o di Capodichino; e con Napoli lo furono Capri, Procida, Ischia, Sorrento, Pompei e Paestum, tutti luoghi che per la loro struggente bellezza ben presto divennero addirittura simboli del paesaggio romantico. Nel guardarle ben si comprende come i Viaggiatori – scrittori ed i Vedutisti degli anni Venti non si limitarono a osservare le nostre spiagge, le rovine archeologiche, i monumenti o i costumi e a rifletterli come uno specchio, bensì li investirono della luce mutevole dei propri stati d’animo e delle proprie malinconie, affermando costantemente il primato del sentimento sullo specchio della mente, di quel sentimento che solo può consentire di cogliere il genius loci, la identità segreta di un luogo o di una civiltà. […] Il protagonista assoluto delle gouaches degli anni dopo la Restaurazione fu comunque ancora il Vesuvio, sia per numero che per varietà di rappresentazioni, ripreso da Camillo De Vito, da Salvatore Luigi Gentile, e da altri ancora più e più volte, di giorno e di notte, al chiaro di luna o tra fiamme altissime ed incandescenti. Questa volta fu un’altra memorabile eruzione a fornire spunti e immagini, quella iniziata il 22 ottobre 1822 e durata nella fase acuta circa dodici giorni: la quantità di cenere eruttata fu tale da oscurare di giorno completamente il cielo delle località più prossime al vulcano, così come enorme fu la quantità d’acqua bollente precipitata per la condensazione dei vapori, al punto da inondare quasi completamente i villaggi di Somma e S. Sebastiano.
Il fatto che spesso un’opera venga indicata indifferentemente come un guazzo o una tempera, anche da parte di studiosi e collezionisti particolarmente esperti, non deve essere oggetto di meraviglia o scandalo, perché, sebbene guazzo e tempera siano due termini che in campo strettamente tecnico devono essere riferiti a due diverse modalità di dipingere, con la prima definizione si suole indicare solitamente soltanto una variante della pittura a tempera, sicché è certamente consentito fare genericamente riferimento al solo più ampio campo delle tempere. La tecnica della pittura a tempera, già ben nota fin dall’epoca dei Romani, consiste nello sciogliere nell’acqua invece che nell’olio i colori ricavati dalla macinazione di alcune terre, e nel farli agglutinare mediante l’aggiunta di colle di origine animale. A queste colle, inoltre, è anche affidato il compito di realizzare un migliore fissaggio degli stessi colori ai diversi possibili supporti, di carta o cartone, di pergamena, di seta o altro. Questa tecnica non richiede nè trattamenti finali di verniciatura, nè alcuna idonea preparazione del sottofondo salvo che per i dipinti su seta, dove, invece, è assolutamente indispensabile procedere preliminarmente a una imprimitura del supporto per renderlo più robusto, immergendolo per qualche ora in una soluzione di allume di rocca in acqua tiepida. Si adotta la tecnica del guazzo, invece, quando al posto delle colle di origine animale vengono usate alcune varietà di gomme, quali quella arabica o la gomma-lacca. Ovviamente, la suddetta distinzione potrà risultare piuttosto grossolana per gli addetti ai lavori, perché in realtà ogni pittore aveva una sua ricetta, ora aggiungendo del miele, ora del bianco d’uovo o del lattice di fico ai componenti di base: Hackert, per esempio, scrisse nelle sue memorie che solitamente sopra le tempere applicava un poco di acqua di vita, o spirito di vino, e che altre volte, molti quadretti con figure, paesi o arabeschi ad uso di tempera o di guazzo, appena ben asciutti, furono da lui coperti con cera bianca liquefatta, brusciati e lustrati. L’uso, quali additivi, di gomme invece che di colle conferisce all’inizio caratteristiche indubbiamente diverse ad un dipinto: i guazzi, infatti, appena dipinti rivelano effetti pastosi e vellutati, o gradi di opacità e delicatezza dei toni cromatici che non sempre si ritrovano nelle tempere propriamente dette. Ma a distanza di tempo, per l’inevitabile alterarsi dei colori, specialmente per la continua esposizione alla luce delle opere, tempere e guazzi appaiono quasi sempre molto simili tra loro, pur se la maggiore intensità cromatica delle gouaches risulta sempre apprezzabile da parte dei più esperti. Spesso, come per esempio in quasi tutti i dipinti di Saverio Della Gatta, le due tecniche addirittura convivono in una stessa opera, oppure sono utilizzate unitamente alla tecnica dell’acquerello: in tali casi, più opportunamente, si usa parlare di tecniche miste. Dunque, solo un occhio veramente esperto può ben distinguere in un dipinto di antica fattura la tecnica del guazzo da quella della tempera: quanti, per esempio, sono in grado di distinguere tra le celeberrime incisioni delineate e colorate a mano che illustrano i Campi Phlegraei di Sir Hamilton quelle dipinte a guazzo da quelle acquerellate o dipinte con tecniche miste? Eppure, sia nel volume principale del 1776 che nel Supplemento del 1779 alcune incisioni sono colorate semplicemente all’acquerello, altre a guazzo, altre ancora a tempera. Sono questi, pertanto, i motivi per cui in questo volume vengono illustrati indifferentemente sia tempere che gouache, facendo attenzione solo nelle situazioni più importanti alle differenze tra esse esistenti.