Autore:LONGOBARDO GUGLIELMO
N. - M. :Bacoli, 1948 - 2023
Tecnica:Tecnica mista su carta
Misure:100 x 70 cm
Anno:1988
Classificazione: Moderni, Altre Tecniche, Astratti
La vocazione informale di Guglielmo Longobardo, maturata nell’arco di un solido ventennio produttivo, connotato da una felicemente evoluta interpretazione della materia, del gesto e del segno, nella comunicazione e nella pregnanza della tensione percettiva, si propone forte non solo per la soggettiva qualità creativa, ma anche per quella universalità interiorizzata che hanno gli archetipi ri-visitati.
Giovanissimo si è mosso all’interno delle problematiche dell’arte contemporanea, tenendo conto dei risvolti linguistici e della progettualità vissuta alla sostanza dell’intuizione che si fa realtà come idea vissuta-avvertita.
Per una pittura che popola d’ottimismo i suoi supporti garantiti dalla presenza delle cose, è certo più facile restare nell’ambito certificante della staticità più o meno sovrabbondante della forma. Questo non accade invece per un giovane artista sensibilizzato alle istanze sociali, impegnato a dire il malessere e l’amore per la sua terra, affascinato dalla tradizione e dal fluire del tempo: vita e cultura dovevano necessariamente ispirare un’arte di partenza in cui l’istinto informale, già consolidato, affiorasse allo scacco di un espressionismo alle soglie: ambiguo tra presenza e dissolvimento.
Le figure che affiorano in certe «apparizioni», in vortici e grumi di colore che si risolvono nel sospiro o nel grido di una generalità astratta, sono significative per far comprendere l’ansia, le tensioni, le contraddizioni del suo mondo sensibile. In quei primi anni settanta la pittura del giovane Guglielmo Longobardo ha i colori dell’entusiasmo e della delusione: appare come fenomeno di una spontanea armonia polarizzata intorno al grumo allusivo della presenza.
Nato in una terra impareggiabile, ferita dal tempo che ha reso metafisiche in natura le presenze del passato, fatiscenti ed attonite di fronte alla perdita di memoria storica, egli si è trovato, acculturandosi, a subire sempre più consapevolmente il fascino del mistero e del magico che aleggia nei Campi Flegrei dove l’inno al sole, consacrato sull’acropoli di Cuma, non disperde le nenie sotterranee dei morti.
Guglielmo Longobardo è nato in un posto magico, stregato: dall’antica sua casa di tufo, il suo sguardo ha avuto la fortuna di spaziare sulla scena della lotta dei giganti, sul teatro del mito che si perde nella notte dei tempi, sul suolo che cela gli Inferi virgiliani, e dai riti dei Cimmeri a quelli della Sibilla ha appreso, per voci tramandate, incubi d’Averno e fiabe dolcissime.
Ci è lecito immaginare con quali contrasti intimi Longobardo abbia dovuto conciliare l’illuminazione «metafisica», i simboli della sua terra, la fuga del tempo e le felici illusioni, l’armoniosa iridescenza di un cielo e di un mare esperti di conflagrazioni ed eventi tellurici nati con gli dèi di un Olimpo di gran lunga anteriore a quello greco, con il cuore ferito di rioni fatiscenti, con drammi di miserie sociali che invano chiedevano giustizia, con la miseria di una cultura arroccata, non partecipata e perciò ostile al civile progresso.
L’artista trova nel suo humus cromatico i valori congeniali della sua pittura. Sia nelle opere di vasto respiro che in quelle dove si condensa l’espressione di un sentimento che esprime una verità psicologica e storica nelle vibrazioni di un fluire di fenomeni primeggiano infatti colori suggestivi, a specchio della presenza nel territorio.
Né sarebbe stato necessario l’accenno alla figura sulla soglia ambigua dell’esserci e della sospensione per dire questo particolare espressionismo astratto.
Tracce di mare, spicchi di cielo, bitume, bianco calce, rosso come richiamo acceso, pareti affascinanti per somme e sottrazioni dovute alle inclemenze degli anni e dell’opera crudele degli uomini smemorati, danno vita ad una loquacità piena: è l’astrazione che universalizza la vita sensibile.
La dialettica dell’immagine all’essere è una prerogativa dell’arte di Longobardo che ha la coscienza della corporeità di un universo la cui pienezza può solo essere percepita nell’astrazione dalla forma.
Le opere degli anni settanta rivelano un pittore che esplora rigorosamente il segno e l’informale come matrici energetiche di uno spazio individuato e posseduto epidermicamente dai percorsi dei colori.
Mi piace pensare agli spazi-segni di Longobardo come sonde esplorative del campo sensibile, una specie di estensione del linguaggio convenzionale, anticipatrice della attuale pittura-scrittura alla quale l’artista è approdato.
Lo spazio-luce diventa a questo punto un luogo ideale, un’essenza pura che ha bisogno di consistere mediante il frammento per determinare una reazione psicologica.
La coscienza della mutevolezza delle cose e del paesaggio inaridito e disgregato che, alla visione colta e all’ispirazione, offre il senso del vuoto e del librato in aria, dà luogo a quelle tematiche di Longobardo che definisco «Essenze gravi».
In queste opere tutto confluisce a sorpresa: un numero, una parola captata chissà dove, un brano urbano, un grumo di memoria, reperti, colori, biacche, patine, catrame, geometrie che nella loro frammentazione potrebbero essere definite nei termini di somiglianza alle forme delle figure piane o solide, ma dal momento che sono parti di un tutto disperso, divengono anonime e sono solo accensione di poesia.
Dagli umori più genuini dell’espressionismo astratto ecco proliferare i resti di messaggi consumati.
Brandelli di manifesti dipinti come riapparsi da un campo di battaglia, dove la sconfitta li ha franti in uno scoppio, si sottraggono al destino individuale: si ritrovano come ad un richiamo del pittore orchestrante che li convoglia con mano veloce alla sua scena-mensa. Li capta con gesto veloce quindi manu-festa e con gesto chiaro mani-festo. Tra le opere più rappresentative di questo periodo ricordiamo «Scacco al re», «Labris», «Mani-a-festa» che coagulano nel veicolo pittura tracce di sostanze vitali e di conoscenza.
Tutto sembra organico e interpretabile nella semplicità dell’evento, ma la memoria del futuro è citazione e veggenza, e la chiave di questa profonda meditazione è affidata solo alla poesia.
Il pregio di questa pittura che si estrinseca attraverso una straordinaria molteplicità di istanze si avvale di una tessitura e di un inventario segnico-gestuale che rende ambigua ogni certezza risultando allo stesso tempo accattivante e provocatorio.
Attraversa l’informale con una luminosità distillata da frammenti fantastici: la poesia di psiche usa energie a flussi per scoprire analogie e miti esistenziali, per individuare frammenti ricchi di pulsioni emozionali.
L’esplorazione avviene all’aria aperta, ma dentro i meandri della memoria l’artista sceglie dalla parete del tempo colori, tracce, graffiti, bulinature, sigle, parole, segnali d’usura, tocchi marginali e prevedibili rivelazioni.
Prima di addentrarci più compiutamente nell’attuale percorso dell’arte di Longobardo è doveroso ricordare una esposizione itinerante insieme a Lizio e Massa che affronta tra l’80 e l’81 il tema: «Il tufo, paesaggio e memoria».
Quella esperienza, motivata dalla realtà di una pietra che connota con la sua presenza lo spazio geologico e geografico, oltre a quello abitativo, dei Campi Flegrei, proponeva il valore della realtà come reperto e come mezzo: il dato tangibile si configurava a specchio del mistero, l’uso per la vita quotidiana alludeva alle dimensioni dell’angoscia di vivere e di insoluti conflitti sociali e culturali.
Nulla quindi al caso nell’evoluzione dei percorsi di questo artista che, comunque, respira voci nel vento della storia della sua terra. E sono voci d’antichi eventi o di richiami quotidiani che alimentano un profondo rapporto con le cose, il paesaggio, il dovere di vivere, tutti conglomerati e filtrati nell’osmosi pittorica.
Fuori della storia, e intanto a misura di modelli determinati, il medium poetico si apre al poema di un immaginario universale che appare sempre rinnovato dall’incanto della autogenerazione o metamorfosi della materia eletta a scandaglio di mistero.
In queste opere suggestive il gesto consolida lo spazio mentre il colore apre vie a flussi di luce: si annuncia un mondo che nasce e si fingono realtà che appartengono sicuramente al territorio della fisicità naturale, come a quello della spiritualità umana.
C’è dentro la favola con tutte le varie implicazioni che comportano sperperi, lacerazioni, la purezza distruttiva del fuoco e la dolcezza di una visione captata nell’emozione degli anni incantati.
La coscienza-corpo scaturisce quindi da una somma di sensazioni ispirate da colori che generano la forma dell’emozione stessa con non casuali effetti ottico-percettivi.
Scansioni urbane si essenzializzano all’idea cuspide-triangolo e vani-quadri sono forse stanze di fantasmi: tornano i contrasti forti dell’espressionismo nelle fiammate dei rossi accesi sui grumi densi degli scuri, concreti e bruciati per accogliere la solitudine di un guizzo giallo o di un gesto che è parola sacra e rebus in un labirinto, quello dei meandri puteolani e cumani, quello che per cento vie si dirama dall’antro della Sibilla. Si apre un’altra fase dell’arte di Guglielmo Longobardo: la sua pittura diventa un medium per conciliare presente e passato. Innanzi tutto lo interpreta tra immagini-luci-oggetti, tutti di riferimento fantastico, poi nel processo costruttivo apre a ventaglio memorie interagenti come materia elementare e la stessa luce-spazio anima ed orchestra una congerie di frantumi. Di fronte ad un vissuto pittorico che intanto è rievocazione astratta del presente-passato, vissuto con consapevolezza culturale, e perché no, anche in maniera ossessiva, già si avverte l’ansia di una descrizione grafico-poetica aperta alla pittura scrittura.
Dalla memoria al sogno ossessivo Longobardo diventerà poeta del tempo non perduto e dello spazio, sostrato di passioni millenarie, sul quale si vivifica la sua stessa esistenza con tutte le passioni insorgenti.
Ci saranno così i primi segnali di una ricerca che opera sulla memoria del passato e su quella futura perché i nuovi elementi che si precisano nell’opera di Longobardo (potrebbero essere anche gli stessi utilizzati prima, ma questa volta mutano significato e sono perciò nuovi) hanno il sapore poetico della citazione astratta e della veggenza: e il risultato è sempre un interrogativo.
Qui non stiamo neppure a discutere se il pittore rispecchi nella sua alata poesia il paesaggio naturale. Diciamo subito che lo interpreta ma non nella banalità del profilo con il quale appare a tutti. Si tratta di una vera e propria scena dove, al richiamo memoriale, concorrono e si confondono essenze meravigliose di storia e civiltà, miti avvertiti senza neppure conoscerli e riti praticati con la spontaneità emotiva dell’istinto.
Longobardo ha sentito dall’infanzia il rimbombo delle cavità che avvertivano i suoi passi del mistero celato sotto la terra, ha ascoltato il muggito delle acque bollenti, si è inebriato alla distesa dei villaggi sparsi tra crateri e boschi verdi e, mentre l’aria marina gli portava sapori di respiro, dalla collina gli veniva l’acre odore di zolfo.
Il vento reca voci del passato miste ai presenti richiami e, proprio come abbiamo detto, la storia intuita, senza necessità di approfondimento, dice che nei Campi Flegrei celebrarono i loro fasti e uscirono dalla scena della vita i pilastri del mondo romano.
Silla, Mario, Bruto, Cesare, Antonio, Tiberio, Nerone: tutta la storia nel suo splendore e nelle sue miserie, nella grandezza e nella volontà crudele, ebbe, a specchio, cantori e filosofi Cicerone, Seneca, Orazio, Virgilio.
E nel crogiuolo dei miti antichi, come fino agli innesti cristiani, queste terre s’accesero di oracoli: la leggenda medioevale volle persino che Cristo dai Campi Flegrei scendesse al limbo.
E come non fantasticare di fronte ai fenomeni di bradisismo, di fronte alla poesia di Omero che canta Ulisse e a quella di Virgilio che cantò l’impero e meditò sugli Inferi? Tutti i colori del mondo si travagliano in questo incanto e all’attuale degrado fa fronte la memoria storica che cerca, nella testimonianza, la grandezza: i numi flegrei non tramontano. Vi spira ancora Acheronte e Dite esala, mentre la tecnologia presente prepara la fabbrica del nulla. E la pittura che ha istinto dal passato e ragione dal presente, supera tutto con l’ispirazione che è sentimento puro e insegue tracce di nero, s’allaga di rosso, fugge al blu memoriale, interroga gialli capricci, rami al vento, sorrisi di pietre patinate come le rocce, flussi d’erbe, resine di pini marittimi e li trasferisce in segni per de-scrivere.
E così Longobardo, inventore di una particolare forma di pittura-scrittura-medium, compone i canti di un poema infinito.
I reperti si confessano, astratti, all’anima di un pentagramma nervoso che s’invola verso strade di candore o oscure nebbie. La pagina è un papiro d’eventi, di qualcosa che è avvenuto senza testimoni e solo con l’istinto si può comunicare nell’innocenza o con la cultura che si avvale di storiche connessioni. Con un ruolo preciso nella pittura che conta a Napoli e che coerentemente si rivela aperta alle più forti istanze dell’estetica e delle poetiche sul piano non solo nazionale, Guglielmo Longobardo sperimenta l’incontro, tutto mentale, tra memoria e presenza, tra cultura e progetto civile reso astratto nell’invenzione.
Ritmo e qualità formale sono le strutture matrici sulle quali vibrano emblemi e presenze come ideogrammi evoluti dal segno-gesto con il nido del pensiero da custodire e mediare; le increspature primitive sono sapide sullo sfondo del materiale cartaceo, umile e congeniale alla poesia descritta che vi scivola, stato su strato, e si fa cinetica, come filmata senza le cesure dei fotogrammi.
Il segno-gesto è quello antico, ma quanta strada ha fatto com’e esperto di lessico critico, nel suo vitalismo naturale: bianco, blu, pietra su soffio di mare, il gesto incespica e cade sull’onda che ha perduto il vago rettilineo e s’increspa nella sabbia vetrosa. Il pregio di questa pittura è l’intensità, la durata, la quantità, la pausa, il fenomeno espressivo che giostra nella significazione linguistica e nelle scansioni della struttura stessa.
Dal momento che le «pagine» emergono dall’inconscio, alcune nascono come siglate dalla perdita di una parola iniziale, altre sono vere e proprie allegorie narrate sul filo del cielo e del mare con più profondi significati e con una morfologia che è allusiva a tutto il mondo flegreo con i suoi vuoti, i pieni, le inondazioni, gli sbuffi d’acqua, le analisi dei codici che alludono a testimonianze perdute e a sospiri per armonie devastate tra assonanze, correlativi oggettivi, scale di linguaggio e intrecci intertestuali.
Un lessico pittorico poetico dunque, questo d’approdo e d’invenzione di Guglielmo Longobardo: una motivazione giusta per essere all’altezza della situazione come pittore connotato dalle stimmate di una terra che ferisce a morte e si fa amare senza remissioni. Per questo amore che non accetta il tempo fisico, occorreva un’anima sottratta ai destini individuali. Una visione operosa e forte nella poesia che attinge al patrimonio immortale da cui si perpetua, si estrinseca in colori «gestiformi», fluidi e fulgidi, della consistenza delle nuvole e delle energie del mare; vaporosi e psicologici; in essi sono presenti tutte le etimologie che vanno alle radici della stessa sacralità.